Chi sa

storie di Pescocostanzo

di

Giuseppe Sabatini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Japadre editore - L'Aquila Roma

 

 

 

 

 

 

A mia moglie

e ai miei figli

PREFAZIONE

 

Tra le innumerevoli fonti d'ispirazione letteraria i critici registrano ai primi posti (se non al primo in assoluto) i luoghi, gli ambienti noti allo scrittore, i cari borghi natii, dove più intensamente si avverte quel senso di appartenenza che è componente precipua dell'identità personale. E quando codesti luoghi conservano (oggi, si può ben dire, grazie soltanto ad un vero miracolo della vicenda storica) il volto del passato, sì da sembrare fermi nel tempo, pur continuando ad essere abitati, percorsi, "usati" dalle generazioni che vi si succedono, è più facile che offrano tracce e spunti di scrittura a chi, vivendo in essi o rapportandosi spiritualmente ad essi, abbia una particolare sensibilità creativa.

Da queste scarne considerazioni si evince agevolmente quale sia la potenzialità evocativa di un luogo come Pescocostanzo, così onusta di storia e di arte, così viva per tradizioni e attività artigiane, così ricca di peculiarità ambientali. Ma è scontato che un tale nodo di suggestioni resterebbe inerte e silente se non vi fosse un animo pronto a recepirle e a tradurle in fatto letterario, un'intelligenza disponibile alla costruzione narrativa ed alla ricreazione artistica.

La personalità di Giuseppe Sabatini, quale emerge anche da questi racconti, è contesta di una straordinaria sensibilità e di una grande capacità di riflessione: due doti rare a trovarsi insieme, ma che quando si accoppiano possono produrre risultati di notevole validità sul piano umano ed anche su quello della poiesis. Nel caso specifico, poi, il fermento che fa lievitare la creazione narrativa è la memoria familiare, serbatoio di aneddoti e profili di personaggi, di situazioni ancorate a certe peculiarità d'ambiente e vicende trasfigurate nella mitologia locale, una memoria che è come addensata intorno alla figura paterna, quella luminosa, serena figura di studioso, di cittadino, di pater familias che l'autore evoca con amorevole dedizione nelle belle pagine di Padre.

Da questo processo nascono le "storie di Pescocostanzo", distinte tra quelle recepite per tradizione orale e le altre direttamente vissute dallo scrittore (ma, in realtà, la distinzione tende a dissolversi nell'unitarietà della cifra evocativa, sempre soffusa di una tenue velatura ironica e insieme di un' impalpabile malinconia, la malinconia di chi riguarda da lontano un oggetto d'amore); sono "storie" che investono poveri artigiani e agiati possidenti, riflessi locali di eventi a dimensione nazionale e momenti della vita abitudinaria del borgo, e ognuna di esse ha un tratto distintivo, un quid peculiare, nel fondo racchiude pure una sua moralità, come "sugo di tutta la storia" (direbbe Manzoni) e implicito,discreto monito al lettore.

Le storie si sgranano nell'arco di tempo che prende avvio dall'inizio dell'Ottocento per concludersi ai tempi attuali: se costumi, comportamenti, mentalità si susseguono variando, c'è tuttavia una modalità specifica che investe gran parte di esse, conferendo omogeneità d'ispirazione temetica ai diversi racconti, ed è il divario tra le premesse e gli esiti, tra le attese dei personaggi e i risultati delle loro azioni, insomma il lato dell'imprevedibilità che condiziona il destino dei singoli così come quello delle comunità.

Giustamente l'autore parla in premessa della"contrad-dizione" come "strana regola di vita imposta all'uomo", soggetto al capriccio del caso che si diverte a rovesciare progetti, speranze, abitudini radicate. Ma la sua costatazione resterebbe un semplice dichiarazione autocritica, se non si traducesse, nel vivo corpo della scrittura, in una compartecipazione alle delusioni, agli sconcerti, alle afflizioni dei personaggi, se non si convertisse, come in effetti accade, in una profonda presa di coscienza e in un'affettuosa adesione a quelle sofferte vicende. E' proprio questo sotterraneo legame col piccolo mondo immaginato –un legame che appunto il distacco ironico inconsapevolmente tende a dissimulare– che costituisce il nucleo vitale dei racconti di Giuseppe Sabatini.

Nelle trame delle "Storie di Pescocostanzo", narrate con tanta limpidezza di stile e sobrietà arguta di linguaggio, traspare in filigrana la vicenda di un' intera comunità che si evolve dai "tempi di Franceschiello" all'epoca così detta postmoderna, affacciata al Duemila; pur nell'adesione costante a un luogo e ad un tempo definiti, esse contengono una valenza più ampia, un significato universale, sono il cordiale messaggio tratto dall'esperienza vissuta, dalle memorie domestiche e dagli affetti più cari dell'autore.

Egli ha scritto nel racconto conclusivo che dà il titolo al volume: "il gioco della vita e della morte, della gioia e del dolore è antico quanto l'uomo, la sua essenza resta invariata; solo le regole mutano col volgere del tempo. Avrebbe scolpito anche lui 'CHI SA' nell'architrave del suo pensiero e spalancato nell'anima una finestra più ampia verso il mondo".

Umberto Russo

PREMESSA

 

Ricordi che il tempo leviga e l'esperienza vissuta rischiara, sì che pare rechino un attuale, sapiente messaggio.

Aneddoti antichi, piccole storie ambientate a Pescocostanzo –paese nativo– insieme a episodi dei Promessi Sposi o del Don Chisciotte, narrati come favole a me fanciullo di quattro-cinque anni da mio padre .

Le sue parole, semplici e colte, ristabilivano allora la distanza cronologica esistente tra noi, che era di sessant'anni, e gli facevano assumere sembianze di nonno amoroso più che di padre intento a intrattenere il figlio o a distrarlo da un capriccio; intanto un mondo vario e reale s'andava svelando allo sguardo infantile. Quando poi, per la sua eccezionale longevità e validità, fisica e intellettuale, tale distanza sembrò accorciarsi (per un trentennio ancora avemmo un felice rapporto padre-figlio) notai sempre, nella sua narrazione di fatti storici o di altre vicende, l'amalgama di uno spirito critico e di un fine umorismo, mediante i quali l'elemento umano dei fatti, come filtrato da una superiore semplicità e saggezza, appariva fuori dal particolare, nel suo valore autentico, sempre attuale.

Sono certo che molti di quegli aneddoti erano stati narrati, questa volta direi di prima mano, a lui bambino, nella stessa nostra casa di Pescocostanzo, non molti anni dopo l'unità d'Italia, quando andavano dissolvendosi nella mutata e mutevole cronaca orale cittadina per entrare nella storia del quotidiano e delle mentalità, in gran parte ancora da scrivere. Per queste insolite circostanze notizie di fatti accaduti quasi due secoli addietro e richiamati in queste pagine (come i moti carbonari del 1821) mi sono giunte mediate unicamente dalla voce di mio padre che alla fine del secolo diciannovesimo conobbe gli spettatori, se non gli attori, di quegli avvenimenti.

Leggenda familiare quindi? Forse. Ma il senso di quelle narrazioni, lo spirito col quale i personaggi erano fatti vivere alla fine del XVIII e nel XIX secolo, il dipanarsi di quei racconti nella cornice domestica, e, poi, il ricordo e l'interpretazione di vicende collettive e fatti miei personali (seppur mai accaduti) che pure mettono capo a Pescocostanzo, tutti questi fattori insomma, costituiscono di certo una particolare sequenza storica. Essa, divisa in queste pagine in due parti, scandite dal passaggio dalle narrazioni udite al vissuto, mi pare che renda in certo modo leggibile il destino e mostri l'anima di un campione piccolo, ma significativo di umanità; così come quella piccola cittadina, scrigno riposto di cultura e di arte, si offre allo studioso quale sorta di modello per l'analisi di più ampie problematiche storiche, artistiche e sociali.

Si coglie allora, e si avvera, un messaggio di consapevolezza che la contraddizione è una strana regola di vita imposta all'uomo, costante unica tra le mille variabili della quotidianità, identica nella sostanza pur nel mutare delle epoche, delle culture e dei temperamenti degli uomini che quella regola devono subire. Contraddizione di fatti, di destini, di pensieri e spesso di desideri.

Di qui l'incertezza e il dubbio, i timori e la speranza che esprime il motto "CHI SA", scolpito nella pietra di Pescocostanzo da una mano antica.

Roma, 19 luglio 1993

Giuseppe Sabatini

PARTE PRIMA

 

 

IL DISPETTO DI DON ARCANGELO

 

Come dallo strappo di una vecchia coltre, ormai tutta toppe, l'abitato di Pescocostanzo emergeva dalla distesa policroma dei lembi di terra coltivata: bruni quelli arati di fresco, giallo-oro quelli con le stoppie di grano o di avena, verdi i medicai; le siepi e i bassi muri di cinta il lavoro diligente e fitto delle cuciture. Le case e gli orti disposti in schiere ordinate, convergendo verso la chiesa, sembravano volerle affidare gli aneliti di speranza e di fede degli abitanti, dei quali s'ergeva solitario messaggero al cielo il campanile con l'alta cuspide, la banderuola, la palla e la croce. A valle, però, la coltre non aveva e ancora oggi non ha più toppe e si slarga in un grande manto, verde e piano, steso tra la cerchia dei monti.

Solo da queste immagini Don Arcangelo era indotto a pensieri sereni: l'affezione per il luogo nativo aveva sostituito in lui da molto tempo l'amore per gli uomini e per le cose. Gli scorci del panorama, le gobbe dei monti, i ciuffi di bosco che s'insinuavano nei canaloni, in certo senso avevano acquistato nell'animo suo il significato e il valore perduto da altre sembianze più intime, sbiadite ormai dal tempo. Quei luoghi erano lì, fedeli, a confortarlo col loro aspetto immutato. Perciò soleva fare lunghe passeggiate scendendo nella valle, in quella pianura, specie nella tarda estate e nelle belle giornate d'autunno. Lo affascinava la solitudine silenziosa e possente, propria del posto in quella stagione, che quietava i timori e gli spasimi che accompagnano la solitudine dell'uomo tra gli altri uomini.

Quando raggiungeva uno dei colli che sovrastano appena la piatta distesa erbosa e l'abbracciava con lo sguardo, Don Arcangelo non avvertiva più il fastidio e l'asprezza che lo tenevano durante la permanenza in paese. Percepiva solo il belato lontano di qualche gregge sperduto nel vasto pascolo, il colore violaceo dei colchici che spuntavano tra l'erba ormai ingiallita e lo snodarsi lento dei suoi pensieri e dei suoi ricordi.

Quasi a voler ampliare quel piccolo mondo nel quale s'era ristretto e consolidarne una sorta di personale, interiore dominio, richiamava alla mente le immagini delle metamorfosi che quella valle subiva nelle altre stagioni. D'inverno, nelle notti di plenilunio, col cielo sereno e il candore della neve che riflette la luminosità lunare, gli pareva di vivere un giorno con un sole piccolo e freddo in via di spegnersi. Allo scioglimento delle nevi la pianura assumeva un aspetto palustre con stormi di uccelli acquatici di passo. Amava meno, forse, l'aspetto di quella campagna nella tarda primavera quando improvvisamente fiorivano miriadi di primule, di ranuncoli e soprattutto di narcisi, chiamati in paese rosesughe perché i bambini succhiavano la goccia di nettare contenuta nel calice di questi fiori dividendo a metà le corolle; il polline giallo restava attaccato ai lati della bocca e sulle guance paffute. Tutti in paese ne coglievano grossi fasci per adornare le icone e gli altari nelle chiese e tenerne mazzolini a rallegrare la casa. Ma a lui l'odore penetrante e dolciastro di quei fiori non piaceva e procurava mal di testa. Solo una volta fu felice attraversando in quella stagione la prateria: dai monti erano scese veloci, gonfie nubi che gli si erano ricongiunte intorno e d'un tratto s'era trovato solo, tra le nuvole, in un prato fiorito. Quella prateria subiva un'altra metamorfosi all'epoca della falciatura e della raccolta del fieno, quando brulicava di uomini, di attrezzi e di animali. Allora a Don Arcangelo piaceva osservarla da lontano affinché le voci e i rumori restassero muti. Le file dei cavalli carichi di tre grosse reti di fieno, il procedere lento dei carri trainati dai buoi e delle slitte che scivolavano sull'erba, i piccoli uomini che si muovevano nei bizzarri riquadri delle minuscole proprietà, pettinati in vario verso dalla falciatura e dai rastrelli, gli sembravano formiche partorite dalla terra che, dopo la raccolta delle provviste, alla terra sarebbero tornate nelle loro tane; parte naturale di quella prateria e del suo ciclo vitale.

Don Arcangelo perpetuava così nella memoria ricordi e immagini di fatti dei quali era stato in quei luoghi quasi sempre protagonista solitario: una giornata di caccia fortunata per la bravura di una sua coppia di segugi; le sensazioni provate durante una "posta alla lepre" quando di sera, immobile e vigile nell'attesa della selvaggina udiva i rumori del bosco che s'addormentava come quelli di un corpo che si prepari per il sonno. Una volta, nella penombra della notte incipiente, un grosso animale si avventò su una lepre che lui aveva appena abbattuto, sparò ancora in quella direzione e corse a vedere di che cosa si trattasse. Trovò un'aquila reale che teneva ancora artigliata la piccola preda. Fece imbalsamare così i due animali e conservò il trofeo in una stanza del suo palazzo. Un'altra volta, ormai non più giovane, mentre riposava seduto su un sasso tra i primi cespugli del bosco, vide sbucare dalla macchia uomini sconosciuti, vestiti in foggia forestiera ed armati, i quali vedendolo urlarono: "muso a terra!" Don Arcangelo capì che si trattava di briganti, in paese ne aveva anche sentito parlare. Fingendo di obbedire all'ordine ricevuto si avventò, invece, in una corsa a rompicollo giù per le ultime balze del pendio e poi attraverso la prateria. I briganti lo rincorsero urlando, ma non gli spararono, sicuri che il fiumicciattolo che era di fronte in ogni caso avrebbe fermato il fuggiasco. Don Arcangelo, invece, arrivato al torrente spiccò un salto, certo il più lungo della sua vita, e fu dall'altra parte; continuò a correre, sentì dietro a sé urla e colpi di fucile poi più nulla. Corse ancora, rallentò, si voltò e non vide nessuno. I briganti, ritenuto impossibile ripetere il suo salto, scaricate contro di lui armi e ingiurie, erano tornati alla macchia. La sua proverbiale magrezza e lo spavento lo avevano salvato. Da allora gli agrimensori, nel tracciare le mappe delle proprietà in quella contrada, vi ritrassero, con ingenue ma espressive immagini, un uomo in fuga inseguito dai briganti. Gustosa cronaca paesana e utile indicazione topografica.

Don Arcangelo tornava da queste sue passeggiate camminando sul tappeto dei fili di fieno caduto dai carri carichi sull'acciottolato delle vie campestri e davanti ai fienili. Si fermava spesso a guardare questi antichi fabbricati con la scala a pioli appoggiata alla porta del pagliaio posta in alto sulla facciata in compagnia di una o due strabiche finestrelle e la porta della stalla abitualmente spalancata di giorno; gli sembravano agresti lari in paziente e protettiva attesa del ritorno dai campi dei loro quadrupedi abitatori.

Arrivato in paese percorreva le strade meno frequentate e raggiunto il suo palazzo ne apriva il portone e rapidamente se lo chiudeva dietro, come a respingere gli sguardi e i pensieri dei suoi concittadini che sentiva contro di sé. Sapeva di essere oggetto di critiche astiose. Se l'era dovute sentire con le sue stesse orecchie, sebbene ammantate da buone maniere e celate da un esteriore sorriso, dai conoscenti nei quali, suo malgrado, s'imbatteva e per averle ravvisate più crude, anche se meno esplicite, nel comportamento e nei modi di altri a lui meno vicini. Teneva ormai per certo di essere oggetto di una sorta di pubblica accusa per quella che l'innata malvagità umana ha sempre considerato una colpa: l'essere vecchio, ricco e solo.Tutto ciò per lui era ingiusto e amaro. Chiuso in casa ripercorreva il cammino della sua vita: gli sembrava che si fosse sempre svolto su un percorso obbligato dalle circostanze; sul quale poco o nulla avevano potuto influire la sua volontà e le sue decisioni. Dall'età matura gli anni erano rotolati subdolamente l'uno sull'altro; gli eventi che sembravano non dover lasciare tracce nel momento in cui accadevano, in seguito, con una catena fitta di cause ed effetti (talora remote le prime, ma attuali e inevitabili gli altri) lo avevano costretto ad una accettazione supina del suo destino. La sua ricchezza, che in realtà a lui non sembrava tale e invece appariva opulenta ai miserabili e agli avidi che lo circondavano, era solo il risultato di tanti lutti e della sua longevità che lo avevano reso erede unico del patrimonio familiare. Nell'arco di un decennio, mentre lui frequentava a Napoli il ginnasio e il liceo, la sua casa veniva lentamente vuotata dalla tisi. Uno a uno fratelli e sorelle, colpiti dal male, diventavano delle larve umane e si spegnevano. Spesso era un isolato sputo di sangue, al quale le prime volte nessuno aveva dato importanza ma che poi generava immediata l'angoscia, a dare l'avvio alla malattia; la quale seguiva poi il suo decorso lento e inesorabile. Così in casa era rimasto solo, con uno zio iroso e decrepito che rendeva testimonianza di sé unicamente con regolari colpi di tosse. Allora fu costretto a interrompere gli studi e a interessarsi dell'amministrazione del patrimonio familiare; avvertì le difficoltà e la noia di tali incombenze e ben presto il panico di sentirsi incapace ad affrontarle.

Negli anni felici e spensierati dei suoi studi aveva sognato, invece, di diventare un grande avvocato o un medico famoso, come quei professionisti affermati che aveva conosciuto a Napoli, dei quali, in virtù delle sue origini signorili, aveva potuto talvolta frequentare i salotti. Allora aveva fatto fermo proposito di conseguire anche lui una laurea e di rimanere ad esercitare nella capitale la sua professione. I proventi del lavoro, che immaginava lauti, ai quali si sarebbe aggiunta la rendita della sua quota di patrimonio familiare, gli avrebbero consentito di condurre una vita piena e agiata, proprio come quella della buona società che aveva conosciuto e che aveva acceso la sua giovane fantasia. L'ossessione della "roba" e del risparmio, del fare ad ogni costo e sempre "economia", l'avarizia, unici criteri che regolavano l'andamento della casa paterna, dovevano rimanere per sempre esclusi dalla sua vita. Ricordava con disgusto il continuo lesinare dei suoi genitori: ogni spesa, ancorché modesta, era considerata sempre uno sperpero e subita come un salasso; i pagamenti, quelli inevitabili, venivano ritardati il più possibile, anche quando il danaro era lì pronto nel cassetto come se a tenervelo custodito qualche giorno ancora avesse potuto germogliarvi. Le rendite, invece, erano stimate sempre magre e, per principio, sistematicamente decurtate dall'abilità truffaldina di fittavoli e amministratori. Questa mentalità, dominata dall'ossessione della "roba", che rendeva grama la vita e che forse era stata responsabile delle maggiori disgrazie occorse alla sua famiglia, aveva rattristato l'infanzia e l'adolescenza di Don Arcangelo e dei suoi fratelli. Se da bambini rifiutavano una pietanza per un capriccio, o avevano rovesciato per sbadataggine una ciotola di latte, ai severi rimproveri s'aggiungevano strani commenti e adagi che allora gli erano parsi solo noiosi atteggiamenti degli adulti, ma poi gli avevano rivelato quale gretta concezione della proprietà e del benessere avessero i suoi familiari. Così li avevano tante volte ammoniti che c'erano stati periodi nei quali in casa per risparmiare s'era "mangiato pane e saliva", che "pane secco e vino aceto fanno l'economia della casa" e a smorzare gli entusiasmi e le illusioni per i loro futuri programmi, gli avevano ripetuto fino alla noia la massima: "Piano, merli, ché la via è petrosa!". Quando adolescente aveva chiesto un vestito nuovo che assecondasse la sua vanità giovanile, era stato oggetto di amari rimproveri e gli erano state fatte profezie di un futuro buio: ché di quel passo sarebbe finito sul lastrico a chiedere l'elemosina come era accaduto a tanti altri signori scialacquatori del paese ( e qui giù filastrocche di nomi e cognomi di gente finita male, morta e sepolta da almeno un secolo); che "Homo sine pecunia imago mortis" e che si sarebbe reso conto troppo tardi della sua sconsideratezza, e solo quando dei futuri creditori si sarebbero avventati sul suo patrimonio e gli avrebbero tolto tutto, "perfino la carne sotto la lingua". L'immagine di questa sorta di operazione chirurgica e del suo esecutore, che certamente avrebbe dovuto avere qualcosa di rapace e grifagno nell'aspetto, s'era poi fissata nella mente dell'adolescente Arcangelo. Ed ecco che ora, varcata già da un pezzo la soglia della vecchiaia, proprio quando avrebbe voluto avere un rapporto più franco e immediato col mondo che lo circondava, doveva accorgersi che per lui tale rapporto era costantemente mediato dalla "roba". E non solo perché per vivere, contro ogni suo antico desiderio, non poteva far altro affidamento che sulla sua roba (e doveva tenerla ben salda tra le mani, ché la proprietà quanto più è vasta tanto più pare inconsistente e sembra sgretolarsi da una parte mentre si tenta di reggerla e di pararla dall'altra!) ma soprattutto perché chiunque lo avvicinasse aveva sempre da fargli richiesta di qualche cosa: lui era solo il tramite inevitabile, e perciò odioso, per poter accedere a quella sorta di deposito di beni, quale evidentemente gli estranei consideravano la sua proprietà. Era, insomma, l'unico ostacolo che si frapponeva tra tali beni e i loro futuri possessori. Eppure non aveva figli, nipoti, né altri parenti prossimi, che sono quelli che aspirano con impazienza a tale possesso. E a mostrare cupidigia non erano i diseredati, i veri poveri del paese; questi sembravano paghi della carità che lui aveva dato ordine fosse regolarmente elargita.

A desiderare con evidente ingordigia i suoi beni in generale, o uno di essi in particolare, erano individui del ceto che più gli riusciva odioso: quello dei nuovi ricchi e dei pubblici faccendieri, ai quali si aggiungeva lo stuolo di compari e di comari che quasi ogni giorno spuntavano come funghi. Questi ultimi, a dargliene il destro, evocavano con sorprendente vivezza di particolari, come fossero accaduti ieri, le cresime e i battesimi ai quali metteva capo il legame di affinità, che invece erano lontani nel tempo e nelle generazioni, seppur mai esistiti. E dovevano anche tenerlo per rimbambito perché, anche quando avrebbe potuto facilmente smentire una loro bugia o confutare una narrazione contraddittoria, lui, al colmo della noia e del fastidio taceva o profferiva dei "sì... sì..."distaccati e astratti, prima di trovare il modo di congedare l'importuno interlocutore.

Da tempo, insomma, era comparsa gente che con sfrontatezza mostrava con lui una familiarità che mai era esistita, dalla quale traeva presupposto per avere in eredità una casa o un terreno confinante col proprio o un qualsiasi altro bene a suo piacere, "per ricordo". A suscitare i desideri di un modesto impiegato comunale era un violino di gran pregio che il più grande dei suoi fratelli aveva comprato a Napoli menando, poi, vanto del prezioso acquisto quando era tornato in paese. L'impiegato in vari modi aveva cercato di venirne in possesso, foss'anche a titolo di prestito. In occasione di feste nuziali e di ricevimenti, quando v'era invitato come musico, rinnovava con garbo la richiesta a Don Arcangelo, adducendo anche la buona ragione che un simile strumento doveva essere suonato per evitare che si deteriorasse irrimediabilmente. Le sue richieste, però, non furono mai esaudite e Don Arcangelo continuò a tenere chiuso nella custodia il violino. Quelli che non avevano alcun motivo per sperare in qualche fetta della sua eredità, trovavano anch'essi modo di farsi vivi con lui con un immancabile riferimento alla roba e per ricordargli che prima o poi gli sarebbe sfuggita di mano. Anzi che già una parte gliene sfuggiva. Così andavano a riferirgli, fingendo affettuosa comprensione della debolezza e dell'impotenza proprie della sua età avanzata, che intanto gli ricordavano, che durante la notte avevano sentito dei rumori nel suo granaio o nella sua dispensa e che poi avevano visto con i propri occhi i ladri che portavano via sacchi di grano e sporte intere di provviste. A questi non graditi informatori Don Arcangelo non dava il tempo di finire il racconto. Senza mostrare sorpresa interrompeva le loro querimonie con un freddo "Certamente!" che li lasciava interdetti, aggiungendo poi subito: "Chi volete che i ladri derubino, se non chi la roba ce l'ha?" e altre volte più spiccio: "Certo, da te che non possiedi niente i ladri che ci verrebbero a fare?"

Per tali motivi aveva anche ordinato ai domestici di non dare in prestito alcun utensile di casa, come nei paesi suol farsi col vicinato, perché non poteva sopportarne la mancata restituzione; la ragione di tale omissione la intuiva chiara e netta come se avesse sentito profferire le parole: "tanto a lui questa cosa ormai non serve più!" Un oggetto di irrilevante valore intrinseco era motivo per considerarlo già morto, facendolo sentire come un defunto che trascorreva in quella casa una provvisoria licenza dall'aldilà.

La difesa della "roba", insomma, per Don Arcangelo era diventata, ancor più che una questione di principio, l'ultima sua molla vitale, la prova tangibile della sua esistenza. Gli tornavano alla mente con l'aura della profezia quelle antiche parole: "Quando vi toglieranno perfino la carne sotto la lingua!" Egli doveva opporsi a questo destino, impedire che si compisse il desiderio di quanti, ignorando la sua umanità e valutando al centesimo la sua sostanza, volevano spogliarlo di tutti i suoi beni e ridurlo in un ospizio di mendicità, morto a tutti gli effetti civili.

In questo stato d'animo lo trovò Don Giancrisostomo, giovane e facoltoso signore suo vicino di casa, quando gli andò a far visita. Questo gentiluomo, continuando l'opera già iniziata dal padre, stava ampliando il palazzo di famiglia, che era posto tra due vicoli dirupati, con l'acquisto e la demolizione, una dopo l'altra, delle casipole confinanti. Impresa che aveva lo scopo di raggiungere con il corpo della fabbrica una delle due strade principali che correvano a monte e a valle dei due vicoli. Allora si sarebbe costruita una facciata di bella architettura, nobilitata da un ampio portale, che avrebbe in certo senso concluso e conferito un aspetto armonico al lungo fabbricato. Altrimenti questo sarebbe apparso incompiuto e monco. A valle Don Giancrisostomo non potè acquistare l'ultima casa perché il proprietario, un oste, ci aveva il suo negozio e non aveva voluto cederla a nessun patto. A monte, tra il palazzo in ampliamento e la strada principale, al punto in cui erano i lavori rimaneva solo un minuscolo fienile, che era proprio di fronte al palazzo di Don Arcangelo e di sua proprietà.

Tra la famiglia di Don Giancrisostomo e quella di Don Arcangelo v'erano state in altri tempi accese liti per questioni di eredità e un'antica ruggine era poi sempre rimasta, anche se i motivi originari delle contese s'erano perduti nel tempo. Negli ultimi decenni l'indifferenza aveva preso il posto della lite e le due famiglie si erano semplicemente ignorate. Al punto in cui si trovava con i lavori, però, Don Giancrisostomo per l'acquisto del piccolo fabbricato era costretto a rivolgersi a Don Arcangelo. Cercò di vincere la riluttanza che provava al pensiero di recarsi da lui; quelle antiche questioni avrebbero aumentato, e non di poco, la già nota difficoltà d'intrattenerci rapporti a causa del suo carattere scorbutico; ma ne considerò l'età avanzata, rifletté che tra loro due, personalmente, in fondo, non era mai corsa parola offensiva o irriguardosa e si rincuorò. Non c'era davvero alcun motivo perché tra loro durasse ancora tanta freddezza! Inoltre, qualunque somma di danaro Don Arcangelo gli avesse chiesto per quel piccolo, malridotto edificio lui l'avrebbe pagata.

Si recò, quindi, a far visita a Don Arcangelo. Al suo cospetto mostrò deferenza, prese conto con garbo della salute e si congratulò per la verde vecchiezza che prometteva ancora una vita lunga e sana. Parlò poi delle immancabili noie che i lavori in corso e gli operai gli procuravano. Disse che, comunque, riteneva di far opera che aggiungeva decoro alla contrada eliminando tante difformi catapecchie e allontanando in tal modo anche i poveri e talvolta inquieti abitanti di esse. Avrebbe gradito anche il consiglio di Don Arcangelo sullo sviluppo dei lavori, se avesse voluto avere la compiacenza di dargliene, conoscendo la sua esperienza e il suo gusto signorile!

Mentre il visitatore perorava con abilità la sua causa, Don Arcangelo, che ben immaginava il motivo della visita, andava considerando con crescente amarezza che costui spinto dall'interesse, aveva voluto dimenticare d'un tratto cento anni di liti, di cause nei tribunali, di dispetti reciproci e di pettegolezzi e ora veniva a tendergli la mano come fossero due vecchi amici che non s'incontravano da un qualche tempo. Ancora una volta ci si rivolgeva a lui per la sua roba e solamente per essa: lui era vissuto più del tempo occorso perché la fabbrica raggiungesse il suo fienile; quello era il solo motivo dell'interesse per la sua persona! Attese che gli fosse fatta la richiesta di vendita tenendo fisse sul visitatore le sue iridi cerchiate dalla vecchiaia senza tradire in alcun modo i suoi sentimenti. Don Giancrisostomo nella inespressività di quel volto lesse una condizione di debolezza, di inerzia senile che le sue parole avevano già vinto e si rammaricò di aver temuto tanto quell'incontro, di averlo così a lungo rinviato senza un valido motivo; fu perciò più franco ed esplicito nel formulare la richiesta di una sollecita compravendita.

Don Arcangelo non gli rispose subito; rimase ancora con le mani appoggiate sulle ginocchia, così come era stato dall'inizio del colloquio, inspirò profondamente aria, spinse alquanto il busto verso la spalliera della seggiola aiutandosi con le braccia come se le sue spalle avessero dovuto reggere un nuovo e più gravoso carico, poi disse calmo e amaro: "Sei venuto da me solo perché vuoi il mio fienile. Ti serve per potertene uscire in carrozza, e proprio davanti a casa mia! Io non te lo permetterò. Non lo vendo!"

Il piccolo fabbricato è ancora lì, ai nostri giorni, a testimoniare il dispetto di Don Arcangelo.

Qualche tempo dopo alcuni operai che di buon mattino si recavano al lavoro, passando davanti al palazzo di Don Arcangelo, trovarono a terra l'archetto di un violino. Capirono che ormai non poteva essere più restituito al suo proprietario.

Il violino fu il primo dei beni di Don Arcangelo ad andar disperso con la sua morte.

ZEFERINO

 

La cavalcatura di don Tommaso precedeva di pochi passi quella di Zeferino sul ripido sentiero delle Pendinelle. Il mulo conosceva la strada che dopo alcune miglia lo avrebbe ricondotto alla stalla, percorsa tante volte ora con la sella come cavalcatura del canonico quando questi si recava a Sulmona per la cura dei suoi interessi, ora col basto come bestia da soma diretta ai mercati ed alle fiere di quella città.

Don Tommaso, lo sguardo fisso al sentiero che si snodava in salita tra le orecchie del mulo, notava solo il ritmico alzarsi e abbassarsi del capo dell'animale, sincrono con il moto delle zampe, che gli dava una sensazione di incedere discontinuo sul terreno, mentre il movimento continuo e cullante che attraverso la spina dorsale gli si trasmetteva a tutto il corpo lo invitava a pensare. Erano frammenti di pensiero quelli che, ormai da tempo, turbavano la serenità di don Tommaso; serenità invero mai raggiunta appieno sebbene l'avesse sempre agognata come uno stato se non di vera e propria grazia, almeno di raccoglimento spirituale e di tranquillità. Da quando era divenuto parroco ne aveva avvertito ancor più acuto il bisogno per poter rivolgere tutte intere le sue energie alla cura delle anime nella parrocchia. Aveva cercato, perciò, di costruirsela lavorando a comporre con infinita pazienza, come fossero le tessere di un mosaico, le contraddizioni e i paradossi che la vita quotidianamente gli metteva sotto gli occhi, gli opposti pensieri che ne scaturivano e i sentimenti e le emozioni che a tratti gli ribollivano nell'animo. In realtà al sacerdozio non lo aveva condotto una sua originaria vocazione, ché anzi in gioventù le sue inclinazioni erano ben diverse e per farsi prete aveva fatto rinunce talora aspre e sopportato profondi turbamenti, ma a indossare l'abito talare lo destinava la sua condizione di ultimogenito nella numerosa compagine familiare e la necessità di evitare che alcuni benefici ecclesiastici passassero in godimento ad un altro ramo del ceppo. Ad accettare quel suo destino, comunque, lo avevano aiutato il desiderio di non tradire le aspettative dei genitori, implicite in tanti loro discorsi e la consuetudine della famiglia con le funzioni religiose, così spesso ricorrenti nelle varie epoche del calendario e scandite ogni giorno, dal mattutino all'avemmaria, dalle campane della vicina chiesa parrocchiale. D'altra parte in casa v'era una tale quantità di libri ecclesiastici, di vite di santi, di raccolte di omelie famose appartenuti a precedenti generazioni di prelati, che le giovanili letture di don Tommaso si erano svolte quasi esclusivamente su simili temi di edificazione morale e religiosa. I volumi con le opere dei classici e quelli di diritto, scritti per lo più in latino o in greco, essendo in minor numero non avevano potuto, forse, attrarre l'attenzione del giovane lettore. I pochi libri di matematica che gli erano capitati tra le mani, poi, erano sembrati subito a Tommaso astrusi e cabalistici, tanto che si era domandato (non sapremmo dire se in perfetta buona fede) perché non fossero considerati libri di magia e come tali annoverati tra quelli vietati dalla Chiesa e messi definitivamente all'Indice dei libri proibiti.

L'insufficienza di informazioni, la povertà di idee che ne era la conseguenza e la mitezza del carattere avevano mantenuto, così, nei suoi propositi uno stato di inerzia che fu vinto facilmente quando giunse il momento di ricevere gli Ordini Sacri.

Quando, poi, nell'adempimento del sacerdozio e specie nell'ufficio di confessore aveva dovuto constatare che la scarsa cultura lo rendeva impacciato, don Tommaso, accanto a quel paziente lavorìo di ricomposizione dei contrasti interiori,

per colmare le proprie lacune, si era applicato in letture, si era immerso in meditazioni e aveva cercato di cavar costrutti di valore generale dall'esperienza quotidiana, vivendola con spirito critico. Tutto ciò, per un certo tempo, ampliando l'orizzonte del suo pensiero, era valso a dargli una maggior sicurezza e talvolta, nel quotidiano esercizio del suo ministero, una gratificante sensazione di appagamento . Ma adesso che era avanti negli anni, avvertiva a volte più, a volte meno netta, una mancanza d'interesse per faccende e incombenze di cui prima s'occupava con lena e per le quali a volte gli era capitato anche di angustiarsi. Da qualche tempo uomini e cose gli apparivano sotto una luce diversa, in forme, espressioni e significati diversi. Nei momenti di ozio, che il canonico prima evitava, e che invece ora cercava spesso, questo nuovo mondo interiore gli pareva che germogliasse da antiche e profonde essenze dell'animo suo. Allora lo pervadeva un bisogno imperioso di possedere qualcosa che fosse pure di percezione meno immediata ai suoi sensi, ma più concreta nella sua mente; un bisogno di afferrare concetti che vivificassero in lui una fede meno formale e più ascetica; che gli rendessero più chiare certe intuizioni che intravvedeva presenti e profonde nel pensiero degli autori di alcuni libri (ora ne leggeva anche di profani) e nelle stesse sacre scritture.

Talvolta era un evento all'apparenza del tutto insignificante a mettere in risalto la discordanza tra il suo stato d'animo di astrazione e le realtà quotidiane, e, quando la vecchia e la nuova percezione di un fatto, ormai entrambe incerte si sovrapponevano, don Tommaso era colto da una trepidazione e da un'ansia che prima gli erano ignote.

Si sentiva diverso dagli stessi colleghi del Capitolo della Collegiata; di alcuni aveva sempre ammirato la vita austera e la grande dottrina, e con essi manteneva rapporti di timida cortesia e di rispetto senza sentirsene per ciò umiliato; di altri invece non poteva sopportare la crassa e ben pasciuta ignoranza. Non rari, poi, a contrariarlo erano avvenimenti che in paese suscitavano mormorii, maldicenze o "scandalo", come chiaro e tondo spiattellavano i benpensanti, dei quali era protagonista un prete. Proprio qualche domenica prima, alla messa cantata, lo aveva stizzito uno di tali fatti, anche perché non era riuscito a trattenere un sorriso di partecipazione al mormorio ironico che d'un tratto s'era levato tra i fedeli. Questi stavano ascoltando un panegirico che con gran fervore recitava dal pulpito, condannando la lussuria ed esaltando la purezza, un canonico che, come tutti sapevano, aveva avuto un figlio da una donna conosciuta come "Pasqua dei tre ducati". Nessuno mostrava di meravigliarsi udendo da quale pulpito veniva la predica. La gente conosceva bene il proverbio, allora spesso ricorrente: "Fa quel che il prete dice e non quello che fa!" Ma le cose presero una piega diversa quando Pasqua, certo contravvenendo a precisi ordini del suo amante, pensò di non perdere la messa quella domenica e proprio durante la predica (a quel punto il popolo ritiene che la messa sia "ancora buona") entrò in chiesa con il bambino in collo. Chi vide la donna ammiccò e diede di gomito al vicino, chi non comprese subito il motivo del tramestio tosto se ne informò; ma l'oratore che dall'alto del pulpito aveva notato Pasqua tra i primi, si rese subito conto della causa del mormorio e divenuto rosso in volto, s'impappinò, perse il filo del suo dire forbito e per concludere in qualche modo la frase iniziata, che tra l'altro esaltava la fedeltà coniugale, uscì con un dialettale ma esplicito "...Insomma, figliuoli miei, almeno... almeno... ognuno con quella sé!" Espressione che da allora entrò nel gergo paesano.

Un più recente e personale motivo di cruccio era stato per don Tommaso quello di aver assunto come domestico e mulattiere Zeferino. Costui in paese aveva fama di mago e fattucchiere, comunque di corrispondente, foss'anche di quart'ordine, delle forze occulte del maligno. Quanto bastava, e ve n'era d'avanzo, perché gli altri servitori della famiglia, il vicinato e persino semplici conoscenti di don Tommaso si sentissero in dovere di criticare la sua decisione e di ironizzare addirittura su quella sorta di strano sodalizio tra due rappresentanti delle opposte potenze dell'aldilà. Don Tommaso dal canto suo aveva solo inteso dar lavoro onesto a un pover'uomo che glielo aveva chiesto mostrando una preventiva rassegnazione al probabile rifiuto. Aveva pensato che, seppure Zeferino consigliava a qualcuno pratiche contro il malocchio, questi erano credenze e usi abituali a quei tempi presso la povera gente e in fin dei conti del tutto innocui. Lui, don Tommaso, non aveva mai avuto modo di lamentarsi del servizio che Zeferino prestava: alto, allampanato, con le brache strette alla cintola da una fascia che un tempo era stata di color rosso, la giacca corta ed il berretto a cono dei contadini, era sempre puntuale e sollecito nel lavoro. Mulattiere da sempre, aveva grande dimestichezza con gli animali: si avvicinava come non visto a un puledro ombroso e mentre lo rabboniva con la voce gli aveva già stretto intorno al capo la cavezza; con pochi semplici gesti poneva il basto ad un mulo e ne bilanciava la soma o attaccava il cavallo alla carretta. Mentre sembrava che riposasse, in un canto della stalla esaminava e riparava finimenti. Don Tommaso non lo aveva mai colto in pratiche o atteggiamenti sospetti di stregoneria e, dopo i ripetuti dinieghi di Zeferino alle esplicite domande che gli aveva rivolto in proposito, non gli aveva chiesto più nulla. Tuttavia di tanto in tanto doveva ancora rimbeccare qualcuno che non mancava di fare con lui allusioni ai poteri occulti del nuovo domestico.

A distogliere don Tommaso dai pensieri nei quali era assorto, sul sentiero delle Pendinelle, questa volta fu proprio Zeferino che vociando dalla sua cavalcatura gli raccomandava di tenere corta la briglia al mulo, perché poteva spaventarsi per le brusche folate del vento che s'era levato e che, assieme all'inicipiente nevischio, non prometteva nulla di buono per il resto del viaggio. Infatti il tempo s'andò mettendo al peggio e, quando i due viandanti ebbero raggiunta una quota più alta del loro itinerario, la neve aveva già coperto il terreno e il vento infilava aghi di ghiaccio nelle pieghe dei loro mantelli. Al piano di Sant'Antonio furono colti dalla tormenta che a tratti toglieva la vista e il fiato. Zeferino affiancò la sua cavalcatura a quella di don Tommaso e camminando di conserva cercò di evitare che gli animali sprofondassero nei fossi che la neve aveva colmato o che s'ingolfassero nei cumuli prodotti dai mulinelli di vento.

Erano ancora molto distanti dal paese. Col bel tempo e un'andatura spedita non lo avrebbero raggiunto prima di due ore; così era una meta irraggiungibile. L'unico posto in cui rifugiarsi e trovare riparo, a quel punto, era l'Eremo di Sant'Antonio che tra un turbine e l'altro si intravvedeva circondato dai suoi alberi secolari. Lo raggiunsero. Il piccolo vano aperto ai viandanti, gelido e spoglio, consentiva solo il riparo dal vento e dalla neve. Don Tommaso era scosso da brividi di freddo, le mani e i piedi intirizziti; tentò di camminare su e giù per lo stambugio, ma le gambe si muovevano a scatti, quasi indipendentemente dalla sua volontà, e i piedi non percepivano il contatto col suolo. I racconti di compaesani colti da bufere di neve gli tornarono alla mente vivi e attuali. Non pochi avendo smarrito la strada anche a breve distanza dal paese, avevano passato la notte all'addiaccio e c'era chi in tali circostanze aveva perso addirittura la vita! Gli tornò in mente il racconto dei tre orefici che colti dalla tormenta, una sera, mentre tornavano da un viaggio d'affari, erano riusciti a sopravvivere fino al mattino istituendo una sorta di staffetta tra loro: l'andare avanti e dietro a turno tra due punti di riferimento a portata di voce gli aveva impedito di smarrirsi e di rimanere assiderati. Ad ogni buon conto lui era tra quattro mura! Le bufere di neve tra quei monti, però, possono durare a volte anche più giorni!

Mentre questi pensieri si volgevano nella sua mente, e prima che la recita delle preghiere alleviasse l'angoscia che li accompagnava, Zeferino gli si avvicinò guardandolo attento come a scrutare i suoi pensieri con quei suoi occhi celesti e fanciulleschi proprio fuor di posto in quel volto scuro, segnato dalle fatiche e dal sole più che dall'età. Don Tommaso pensò che avesse qualcosa di importante da dire: "Che c'è?" fece. Zeferino, come avesse improvvisamente mutato parere, rispose:"...Ho legato qui dietro l'Eremo i muli...".

"Quanto più la bufera è forte, tanto prima cessa o ci sono delle schiarite; alla prima schiarita ripartiamo!" disse don Tommaso, come per rassicurarsi e rassicurarlo, in realtà per tagliar corto ed evitare atteggiamenti troppo confidenziali del suo compagno di viaggio in quel frangente. Zeferino non proferì parola e tornò sui suoi passi rimanendo ritto in piedi appoggiato al muro del piccolo vano avvolto nel mantello. Ma dopo alcuni minuti e dopo aver aperto l'uscio, dal quale entrò un turbinio di neve e averlo tosto richiuso, come se con quel gesto avesse preso improvvisamente coraggio, si rivolse a don Tommaso dicendo: "Vossignoria, don Toma', sapete che in paese dicono che io...che insomma certe volte...se necessariamente..." Don Tommaso istintivamente fiutò il pericolo ma rifiutò di intendere il senso delle parole di Zeferino; sperò di non aver ben compreso. Dette così al domestico il tempo di concludere in qualche modo la frase incominciata:"...se io dico...tre parole turchine dentro il cappello..." Ma Zeferino dovette interrompersi, don Tommaso lo fulminava con lo sguardo mentre si segnava con tre croci, sulla fronte, sulle labbra e sul cuore. Urlò poi subito: "No! Mai!" e le altre parole di diniego e di condanna che gli uscirono di bocca, poi, furono così pronte e perentorie che gli parvero pronunciate da un'altra persona, ben più decisa e volitiva di lui. Attese quindi che l'ira gli sbollisse, si impose calma con un enorme sforzo di volontà e quindi, per prevenirne altre proposte, spiegò a Zeferino che tutto ciò era peccato mortale solo pensarlo; che ben più della misera vita del corpo, era quella dell'anima da tenersi da conto e che, in ogni caso, mai lui avrebbe preso parte a pratiche di magia. Zeferino tornò al suo cantuccio e rimase a lungo silenzioso, con un volto inespressivo da idiota. "Da idiota," cominciò a ripetere dentro di sé don Tommaso quando ritenne di aver respinto ogni iniziativa del suo domestico. "Avere come aiutante in simili circostanze un fatuo che crede anche di essere dotato di poteri soprannaturali!..." Poi, senza rivolgersi direttamente a lui, espresse ad alta voce il suo convincimento che non c'era altro da fare che aspettare una schiarita e apparve fermo in questo proposito: si era nelle ore antimeridiane, la famiglia lo aspettava, vedendo il tempo brutto gli avrebbe mandato incontro una slitta trainata dai buoi come si faceva sempre in quelle circostanze. Bisognava aspettare!

Zeferino si mostrò assolutamente incredulo sulla possibilità che tali evenienze si verificassero, e, dopo qualche minuto, senza muoversi dal suo cantuccio, azzardò: "Non dicevo tanto per noi...Noi potremmo anche aspettare domani...ma per le bestie; sono digiune, fuori della stalla...in mezzo alla bufera!" Poi cominciò a ripetere, col fare di chi parla tra sé, come un bambino capriccioso che abbia smesso di aver paura della punizione minacciata: "Se dicessi le tre parole turchine dentro il cappello!... se le dicessi le tre parole!...Sennò,...sennò don Toma', noi al Peschio non ci torniamo!..." Don Tommaso dall'altro capo della stanza interrompeva ogni tanto le sue preghiere con degli stizziti: "Stai zitto! Non dire altre sciocchezze! Ti proibisco!" E, dopo alcuni minuti, di rimando al sempre più fitto mormorio di Zeferino: "Pensa alla tua anima se ne sei capace; così, Dio non voglia, vai diritto all'inferno!" Poi, con un gemito, "...in manus tuas..." Don Tommaso si raccomandava l'anima. Era prostrato; quella era forse la sua ultima ora, inattesa in verità, anche se tante volte immaginata! Aveva sempre pensato che vi si sarebbe preparato con raccoglimento e umiltà...Ma forse la volontà di Dio... Sentì l'aura di grande mistero che accompagna l'idea della morte quando essa è presente nel pensiero più che nella realtà immanente. Cominciò ad avvertire allora, con sgomento, una strana sensazione di possibilità nei confronti del soprannaturale e del magico di cui, forse, proprio lì accanto a lui era un elemento tangibile; in quali circostanze! Questa ennesima contraddizione della sua vita lo terrorizzò; sentì un bisogno imperioso di allontanarsi da quel luogo. Zeferino dovette indovinarne i pensieri. "Forse una schiarita sta iniziando –disse– ora porto qui davanti le cavalcature". Andò fuori, tornò subito, aiutò don Tommaso a montare in sella. Ed ecco che un vento ancor più impetuoso, ma né freddo, né caldo, avvolge per un attimo i viaggiatori e...don Tommaso non crede ai suoi occhi "...Gesù, siamo alle porte del paese, siamo al Colle di Santa Maria –esclama– davanti alla chiesa delle Grazie! ...Siamo arrivati!" Guarda Zeferino: costui era a capo scoperto con il cappello in mano, sotto la neve che ora cadeva rada e leggera. "Don Toma' –fece questi in tono di scusa– le so' ditte!"

Il racconto di questo soprannaturale e diabolico salvataggio, che nel paese corse di bocca in bocca arricchendosi sempre più di particolari prodigiosi, avvelenò gli ultimi anni di vita a don Tommaso: le sue recise smentite di così fantasiosa ed assurda diceria, non valsero a rintuzzare e annullare nella pubblica opinione l'effetto dei furbeschi ammiccamenti di Zeferino; il quale, quando si parlava di quel fatto, doveva pur difendere il suo buon nome di mago e fattucchiere.

LE TERRE DI PUGLIA

 

Le nozze di Don Croce, il primogenito, avrebbero avuto il fasto e la pompa che la circostanza richiedeva. La ricchezza opulenta della famiglia sarebbe stata ostentata secondo l'antica tradizione. Le terre di Puglia, fertili latifondi nel Tavoliere, grondavano ancora olio, grano, vino, armenti, lane, formaggi. E anche se i fattori avevano parlato spesso di raccolti magri, di morie del bestiame, se di tanto in tanto avevano portato, con rispettosa soggezione, obbligazioni da firmare al Padrone e qualche volta s'era dovuta tagliare e vendere qualche fetta di quella pingue proprietà ("solo per poter disporre al momento di danaro liquido") tutto ciò non modificava il tenore di quella opulenza, che pareva avesse fissato stabile dimora tra le mura di casa Colajanni.

I vecchi ricordavano spesso i festini dati all'epoca della loro gioventù e quelli ancor più antichi, splendidi, registrati negli annali della cronaca familiare. Se ne narravano mirabilia per il numero degli invitati, per lo splendore dei gioielli e degli abiti che le signore avevano ordinato a Napoli o addirittura a grandi sartorie fuori del Reame, per il numero delle botticine di vini pregiati e le enormi quantità di cibi e di dolciumi preparati per l'occasione: nei giorni che precedevano la festa, non solo nelle dispense, ma anche su vasti tavoli in molte camere del palazzo, erano approntate ceste di pizzelle e di amaretti, torte di pan di Spagna e creme e, a seconda della ricorrenza, colustre a carnevale, zeppole a s. Giuseppe e scarselle a Pasqua. La durata di tali feste, poi, variava a seconda dell'epoca in cui si svolgevano: se capitavano nei mesi invernali, nel corso di una nevicata, potevano protrarsi per un'intera notte, o una notte un giorno ed un'altra notte quando i cavalieri erano attenti a serrar bene gli scuri delle finestre durante la breve e buia giornata. Il tempo in allegria passava presto. Era ancora inebriante il ricordo delle polche e delle quadriglie danzate al suono delle orchestre chiamate dai paesi vicini!

Così, di ricordo in ricordo, dai racconti, dall'osservanza di usi e consuetudini di cui s'erano perse le motivazioni originarie, dalla cronaca familiare dei Colajanni non si cavavano altre memorie che di dissolutezze e sperperi, specialmente, in occasione di nozze, battesimi e funerali. Anche questi ultimi, infatti, erano un buon pretesto per sfoggiare pompa e innalzare alla famiglia elogi sperticati orali e scritti su grandi tabelle affisse tra nere cortine sul portone del palazzo e sul portale della chiesa. Né minore spreco di danaro si aveva in occasione delle festività di santi dei quali la famiglia si riteneva la rappresentante e mandataria speciale per i loro uffici terreni.

A testimoniare il diritto a tale tenore di vita, che era ritenuto senz'altro naturale, a renderne pubblica ragione, se mai ve ne fosse stato bisogno, non solo c'erano le terre di Puglia, ma era lì il palazzo gentilizio, uno dei più belli del paese, e lo stemma, dipinto sulla volta dell'androne, sugli sportelli della carrozza e scolpito sull'altare di patronato in chiesa. Prove inequivocabili di un antico lignaggio. In verità, sarebbe stata cosa gradita se si fosse potuto dimostrare, carte alla mano, il possesso di un autentico titolo nobiliare, o almeno che i Colajanni erano il ramo cadetto, trapiantato qualche secolo prima in paese, di una delle grandi e nobili casate del Reame. Ciò avrebbe aumentato di gran lunga il loro prestigio nei confronti delle altre famiglie ricche del paese con le quali la gara di ostentazione della maggior ricchezza era, e rimase poi, sempre aperta e pendente. Quel titolo nobiliare avrebbe finalmente sostituito quello generico di "barone" del quale veniva insignito, per popolare decreto, il personaggio principale di quelle famiglie benestanti, con tanto maggior consenso quanto più prepotente, bislacco e sperperatore fosse.

Si dava per certo che i documenti di tale nobile origine dovessero trovarsi nell'archivio di famiglia che, intanto, nei vari ammodernamenti del palazzo era stato relegato in soffitta. Lì giacevano casse e sporte di libri di ogni tipo e formato; pile di volumacci in folio rilegati in pergamena, pasto dei topi nei loro giorni di magra; "carte pecore" intere che tornavano utili ai ragazzi per far colla e palloncini aerostatici in occasione delle sullodate feste, e tanti fasci di "carte vecchie" che nessuno più era in grado di leggere quand'anche gliene fosse venuta la voglia.

Se quei gentiluomini le avessero lette, invece, avrebbero scoperto con quanta fatica, parsimonia ed accortezza quei loro patrimoni erano stati accumulati e con quanta saggezza, poi, amministrati. Avrebbero saputo che quegli antenati, artefici della loro ricchezza, erano in genere agenti o rappresentanti locali dei signori feudali contro i quali avevano dovuto lottare duramente, con ricorsi alla Regia Camera della Sommaria e lunghe cause nei tribunali, per affrancare da gravami e balzelli le loro iniziali proprietà. I processi, le memorie forensi, gli atti notarili, le lettere e i minuti resoconti delle rendite, erano in quei fasci di vecchie carte gettate in soffitta, a loro tempo piegate, legate e riposte con cura; le quali recavano a margine del plico, con parole abbreviate in un occhiello, l'indicazione del contenuto. Avrebbero trovato anche in tondi astucci metallici le lauree di coloro (avvocati, medici, notai) che avevano acquistato quei vecchi e reietti libri, ascendendo così, primi della stirpe, il gradino basilare della scala sociale che è quello della cultura. Fu questa che, in felice unione con il benessere economico, aveva conferito alla famiglia per circa due secoli un'autentica patente di nobiltà che prescindeva dagli smalti araldici. Metterebbe conto studiare le cause della rovina che nell'arco di mezzo secolo, tra la fine del XVIII e il primo quarto del XIX, coinvolse molte delle ricche famiglie di Pescocostanzo, ma questo non è compito nostro.

Qualche spiegazione di quei fatti, tuttavia, ce le daranno, per lo meno per la famiglia Colajanni, Don Ignazio e sua zia Donna Rosina. La quale era rimasta in casa zitella perché la famiglia le aveva impedito il matrimonio con un magistrato di Napoli. Costui l'aveva chiesta in sposa con tanto amore e pari dignità, e proprio perciò del matrimonio non se ne era fatto nulla. Neppure a parlarne, anzi, perché con simile matrimonio si sarebbero scesi alquanti gradini della scala sociale e la famiglia si sarebbe imparentata con un impiegatuccio, un suga-gnostro. Terre al sole ci volevano, e molte, per i pretendenti alle donne della famiglia Colajanni; o almeno un titolo nobiliare autentico, e meglio ancora l'uno e le altre! Sudditi modello del Borbone, che apostrofava pennaruli gli intellettuali del suo regno, i Colajanni estendevano la loro avversione anche al calamaio e all'inchiostro simboli delle attività intellettuali e della cultura acquisita con lo studio, cose superflue, e persino disonorevoli, per possessori di tanta ricchezza!

Ma dobbiamo occuparci delle nozze di Don Croce, che urgono. Nel fervore dei preparativi fu rinnovato l'addobbo delle sale e della cappella che erano al piano nobile del palazzo dove le nozze sarebbero state celebrate; furono rinnovate le vesti della servitù e raddoppiate le luminarie. Ma per quanto sfarzosi si programmassero i festeggiamenti non sembrava che si riuscisse a superare, almeno in originalità, il cerimoniale dei matrimoni avvenuti negli ultimi tempi nelle famiglie degli altri ricchi signori del paese. Prima del giorno delle nozze, però, l'idea nacque! E, affinché l'effetto desiderato fosse raggiunto appieno, si fece sapere alla servitù che per gli spettatori del corteo nuziale era in serbo una ricca sorpresa. Tanto bastò perché si diffondessero in un baleno voci diverse ma tutte ugualmente certe: Le cantine del palazzo ...macché le dispense, sarebbero state aperte al pubblico non appena fosse uscita di casa la carrozza degli sposi! Anzi, sarebbero stati gli stessi sposi a distribuire manciate di monete d'argento...E via di questo passo. Così la folla che solitamente faceva ala ai cortei nuziali dei signori questa volta fu doppia o tripla e s'assiepò ansiosa ai lati del portone, trattenuta a stento dai servitori. Quando, spalancati i battenti, apparve la carrozza degli sposi con un maestoso tiro a quattro, la gente trattenne il fiato stupefatta da tanta magnificenza, ma, soprattutto, per esser pronta ad afferrare l'occasione dell'ignoto, ma certo e ricco dono che stava per ricevere. I cavalli retti dal cocchiere avanzarono al passo finché, poco oltre il portone, non ebbero raggiunto un tratto di strada in salita, con l'acciottolato più che altrove sconnesso. Qui il cocchiere improvvisamente sferzò e incitò con la voce i cavalli; questi, che pareva non attendessero altro, con uno scarto ed uno scatto improvviso partirono di carriera. Dai loro zoccoli schizzarono via, allora, grossi ferri luccicanti d'argento, opportunamente fissati con un solo chiodo, anch'esso d'argento. La folla capì, urlò e s'accapigliò ruzzolando a terra nella contesa del ferro e del chiodo. Così alle nozze di Don Croce fu assicurata fama duratura nella cronaca cittadina e del circondario.

Ma tosto, sugli sposi in viaggio di nozze a Napoli, corsero voci malevole e s'innescò un pettegolìo che coinvolse in breve tutti i benpensanti della cittadina. Si disse che le cose fin dalla prima notte non erano, poi, andate proprio bene tra gli sposi; che un'altra volta, anziché dormire contento accanto alla fresca moglie, Don Croce l'aveva destata nel cuor della notte pretendendo che l'accompagnasse a fare un giro di Napoli in carrozza mentre lui suonava il mandolino e che, al categorico rifiuto di lei, "il gallinaccio –andasse urlando per tutta casa– lo farò accompagnato dal gallinaccio!" In realtà il volatile era l'unico disposto ad accompagnarlo, intendendo forse di diver rendere anche quel servizio al suo padrone prima di finire in brodo. Il cocchiere, infatti, che pure alle stranezze del suo padrone era abituato, in questo caso non si sentì disposto a perdere la faccia nei confronti dei suoi colleghi e a offendere con simili ospiti a bordo l'onore e l'amor proprio della categoria.

Queste cronache richiamarono presto alla memoria dei familiari altre stramberie del giovane Don Croce, considerate fino ad allora scherzi e spiritosaggini, narrate (forse con l'intenzione di mettere sull'avviso i genitori) da Felice che era il suo cameriere e accompagnatore durante i viaggi. Una mattina a Napoli –aveva raccontato Felice– affacciandosi alla finestra della camera dell'albergo dove avevano preso alloggio, Don Croce, avendo visto lì di fronte un barbiere nella sua bottega in attesa di clienti, aveva detto di voler andare a farsi radere. Ma qualche istante dopo Don Croce era tornato in camera contrariato, "Felì –gli aveva detto– il barbiere è scomparso!" "Un po' di pazienza –gli aveva risposto Felice– si sarà allontanato un momento per qualche suo servizio". Ma così dicendo Felice, accostatosi alla finestra, vede che il barbiere era al suo posto; "Don Crò –dice– il barbiere è tornato". "Allora vado" risponde Don Croce e scende in strada per la seconda volta. Un attimo dopo, però, Felice lo vede tornare in camera imprecando: "Persancristo, Felì, il barbiere è scomparso un'altra volta!" Felice rimane perplesso, s'affaccia alla finestra, vede che il barbiere è al suo posto e lo mostra a Don Croce. "Persancristo, è ricomparso ancora!" esclama Don Croce. A Felice s'apre la mente: "Don Cro' –dice– ma quando uscite dall'albergo, girate o no l'angolo della strada? perché questa barbieria non sta di fronte al portone dell'albergo, ma in una strada laterale!" "Persancristo, Felì, hai ragione –ribatte Don Croce– ma questo a me il barbiere non me lo doveva fare! Andrò da un altro barbiere".

Né al ritorno dal viaggio di nozze le cose andarono meglio; le stranezze si succedevano alle stranezze, accessi di furore, talora effetto di abbondanti libagioni, interrompevano la monotonia di uno stato di confusione mentale, e la moglie, che dapprima lo aveva allontanato da sé pur rimanendo in casa, ritenne miglior partito quello di tornarsene dai genitori nel paese vicino.

Capofamiglia, senza consigli, se non di quelli che videro giunto il momento di dar la stretta finale al processo di spoliazione, del resto già ben avviato, del patrimonio dei Colajanni, Don Croce firmò cambiali, obbligazioni, atti di vendita, garanzie, fino a far comparire sull'uscio di casa gli araldi della miseria: creditori che reclamavano danaro, uscieri che pignoravano mobili, periti che stimavano i residui lembi della proprietà. A questo punto Don Ignazio, fratello minore di Don Croce, che come cadetto era stato sempre tenuto fuori da ogni decisione familiare e da qualsiasi programma (se mai in quella famiglia ve ne furono di costruttivi) e che dal canto suo non si era lasciata sfuggire l'occasione d'oro del vivere spensierato offertagli da tale condizione, fu strappato ai suoi passatempi preferiti e costretto a prendere decisioni, in verità, molto superiori alle sue capacità di giudizio. A scuoterlo, più che lo spettro della miseria incombente, furono i consigli decisi della zia Rosina che si preoccupava di lui, il più piccolo dei nipoti ed unico componente della famiglia al quale, tra tanti matti, s'era potuta affezionare. Ora lo vedeva restare "senza arte né parte", come si sarebbe detto se Don Ignazio anziché appartenere ad una famiglia di signori fosse stato uno del popolo; ma, dato il rango che escludeva "l'arte", per lui diremo solo che stava rimanendo del tutto privo di "parte".

Don Ignazio sentiva l'affetto che questa zia nutriva per lui ed era l'unico a comprendere che lo sdegnoso isolamento in cui lei s'era ridotta non era dovuto ad un suo carattere scorbutico né all'età avanzata, come tutti gli altri mostravano di ritenere, ma alla sua impotenza a ricondurre alla ragione il capofamiglia. Infatti, al punto in cui erano le cose, quando Donna Rosina era in presenza di Don Croce, si limitava a sottolinearne la follia pressoché completa con una mimica silenziosa: picchiandosi sulla fronte con un dito e indicando poi il nipote, faceva segno di "no" con l'indice teso; il che valeva un bel dir chiaro che di cervello in quel cranio non ve n'era punto. Stimolato e incitato dalla zia, Don Ignazio s'indusse, alfine, a chiamare un medico; il quale, dopo un breve colloquio con Don Croce, rilasciò la certificazione occorrente perché fosse ricoverato in una clinica di Napoli. Da dove, essendo inefficaci le cure ed insostenibile il loro costo, fu rapidamente trasferito nel manicomio di Aversa e di lui non si seppe più nulla essendo rimasta incerta anche la data della sua morte.

Don Ignazio allora dovette prima di tutto andare in Puglia; da quelle terre ormai da tempo non giungeva più alcuna rendita, ma solo lettere di massari e fattori che chiedevano pagamenti o reclamavano stipendi e rimborsi di somme che dicevano di aver anticipato per conto del padrone o addirittura di avergliele prestate. Né s'erano più visti Nicola (o Nicolacchio, come qualche volta era parso di sentirlo chiamare dai suoi stessi accompagnatori) il fattore capo delle Puglie e i suoi accoliti che nei tempi della spensieratezza portavano rendiconti, carte da firmare e donativi al padrone. L'arrivo di questi personaggi in casa Colajanni era rimasto vivo nel ricordo di Don Ignazio per la novità che rappresentava agli occhi dei piccoli e perché il fattore aveva sempre in serbo per loro qualche piccolo, speciale dono. Ma ciò che più li divertiva era il suo strano dialetto, i differenti nomi che dava agli oggetti di uso domestico, i titoli altisonanti di eccellenza, illustrissimo, eccetera e i profondi inchini che elargiva a tutti i membri della famiglia e anche (i ragazzi ne erano certi) a qualche mobile o drappeggio particolarmente sfarzoso della casa, quando vi passava accanto. Il lessico di quei visitatori, ancor più che di rito o serbato per la circostanza, era formulato ed accozzato al momento per l'emozione e lo stupore che in loro provocava la visione delle ampie specchiere, dei broccati, delle dorature e delle rilucenti cristallerie profuse nelle stanze del palazzo. Probabilmente anche per il rapido calcolo, forse esagerato, che quei rozzi individui, avidi e astuti, facevano mentalmente del valore venale di quegli oggetti.

Al suo arrivo in Puglia, nella principale masseria dei Colajanni, Don Ignazio, sebbene avesse preannunciato con una lettera la sua visita, non ebbe accoglienze cordiali, né successivamente i fatti si svolsero secondo le sue aspettative. Quando il vetturino della carrozza che aveva noleggiato per raggiungere la sua proprietà gli aveva detto che stavano varcando il confine delle terre dei Colajanni, lui aveva notato che i cavalli avevano trottato ancora a lungo prima di condurlo alla meta; fu allora certo che avrebbe avuto ricche rendite da riscuotere da tutto quel ben di Dio, senza considerare, poi, gli arretrati! Rimase quindi a guardare la piatta distesa di stoppie che pareva continuarsi e penetrare nella linea dell'orizzonte indefinita e tremula per l'afa estiva. L'arsura della terra e delle rare, minuscole case che si scorgevano, bianche di calce, era interrotta solo dai rettangoli di oliveto posti dove una piega del terreno creava un lieve pendìo.

Come era diverso il paesaggio da quello del suo paese! Piatto l'uno, quanto sinuoso e accidentato l'altro pel groviglio degli Appennini; d'estate questo brullo, quando quello era verde; e d'inverno, bianchi di neve i suoi monti e verdi di pascoli le Puglie. Tra le due regioni le greggi transumanti a far la spola pei tratturi, a tessere la trama vitale delle pasture e a tener fede al lucroso patto millenario con l'uomo.

Quando giunse alla masseria Don Ignazio notò subito che era molto diversa da come la ricordava per esserci stato una volta da bambino con suo padre: erano state abbattute le vecchie querce che superavano in altezza il fabbricato, c'erano recinti di nuova costruzione, alberi da frutta piantati intorno e piccoli corpi di fabbrica aggiunti che snaturavano l'antico aspetto di fortilizio dell'edificio. Una donna scalza, intenta a dare mangime ai polli, quando vide Don Ignazio scendere dal postale, senza interrompere il suo da fare, gli disse che in casa non c'era nessuno e che Don Nicola sarebbe tornato molto più tardi. Posata poi in terra con malagrazia la sporta che aveva in mano, lo condusse senza dir altro nel grosso vano di sopra. Lì Don Ignazio ricordava che suo padre, seduto su un seggiolone dietro un lungo tavolo, riceveva massari e fittavoli; allora sul tavolo si ammonticchiavano doni che il fattore togliendoli dinanzi al padrone spingeva man mano da una parte e faceva mettere da una donna in alcune ceste. Tavolo e seggiolone c'erano ancora. Don Ignazio sedette allora al posto che aveva occupato il padre, mentre la donna con manifesta riluttanza portava in casa la sua valigia.

L'incontro col fattore, che per Don Ignazio sarebbe rimasto come uno dei suoi più penosi ricordi, avvenne alcune ore dopo. Nicola giunse nel tardo pomeriggio di ritorno da una fiera, a cavallo, seguito da un carro carico di sacchi, masserizie e attrezzi agricoli. La sua voce nasale, che impartiva ordini e istruzioni nel più stretto dialetto pugliese, giungeva alle orecchie di Don Ignazio dalle finestre che davano sull'aia. Poi Nicola salì da lui, lo salutò chiamandolo signorino, gli chiese come stesse in salute, prese una delle sedie che erano appoggiate alle pareti della stanza e si sedette dall'altra parte del tavolo di fronte a lui;si tolse finalmente il cappello di feltro nero, scolorito e unto e lo posò sul tavolo davanti a sé. La figura del fattore era goffa per bassa e massiccia statura con una testa piccola e lineamenti del volto dominati e quasi cancellati da due enormi baffi grigi spioventi che nascondevano le labbra e gran parte del mento. Ma ciò che più di tutto a Don Ignazio dava un senso di disagio, se non di vera e propria angoscia, era l'aver di fronte i suoi occhi piccoli, furbi e sfuggenti e la sua voce sgradevole che non si sapeva di dove uscisse.

Nicola disse chiaro che di rendite da quelle proprietà non era nemmeno il caso di parlare; che, invece... purtroppo... la stessa proprietà non era bastata a pagare tutte le ipoteche di cui era gravata; che se il barone, buon'anima, avesse ascoltato i suoi consigli di trasformazioni e investimenti invece di chiedere sempre, le cose sarebbero andate per un altro verso...Che, insomma, quel che il Signorino vedeva intorno, per evitare che andasse in malora e conservarlo (non alla famiglia Colajanni, ma a sé stesso) lui, Nicola, aveva dovuto metterci tutto il suo e non era bastato e s'era dovuto gravare di pesi, che ora stava sostenendo Dio solo sa con quanti e quali sacrifici!

A Don Ignazio sarebbero occorse altre capacità di giudizio e di critica sia per ribattere quelle affermazioni del fattore che erano manifestamente tendenziose, sia per cogliere il senso e prevenire l'effetto dei giri di parole, delle sentenze e dei proverbi popolari sulla "roba", con i quali Nicola infarciva impietosamente il discorso; che certo s'era preparato da tempo e ora conduceva con grande abilità per giungere a levar di testa a Don Ignazio, una buona volta per sempre, ogni residua idea di rendita e, addirittura, di proprietà. Frastornato del suo, stanco del viaggio e dell'attesa, contrariato dalle novità che neppur lontanamente immaginava così crude quando era partito alla volta delle Puglie (tanto in famiglia si era lontani dalla percezione della realtà) il malcapitato intese bene, tuttavia, non solo che quelle terre non appartenevano più alla sua famiglia, ma che, se il posto e la seggiola che occupava si confacevano al ruolo di padrone, beh!.. quel posto era di Nicola, anzi di Don Nicola come pareva che ora tutti lo chiamassero. Costui poi, fino a che non fu certo che Don Ignazio aveva ben compreso la situazione quale era nella realtà che gli aveva ammannito, assunse sempre più il contegno di un uomo d'affari che ha molti pensieri e preoccupazioni e poco tempo, e quel poco deve dedicarlo completamente a tali affari e non sciuparlo per cose che non lo riguardino direttamente. Sicché, se mai all'inizio dell'incontro nell'atteggiamento di Nicola v'erano state tracce dell'antico rapporto di dipendenza, esse erano in ultimo completamente scomparse man mano che andava illustrando il panorama dei suoi molteplici e gravosi impegni.

Don Ignazio a questo punto si alzò dal seggiolone, chiese informazioni per il ritorno in Abruzzo e, poiché riteneva proprio di poterne aver bisogno, chiese anche a Nicola una piccola somma di danaro per il viaggio. Sarebbe stata computata, poi, nel più grande e generale conto del dare e dell'avere. Don Nicola per quest'ultima richiesta si mostrò in certa ristrettezza di danaro liquido; comunque disse che in qualche modo avrebbe provveduto. Pel resto mutò registro e non intese sottrarsi agli elementari doveri dell'ospitalità finché il signorino non fu ripartito.

Non molto tempo dopo la rovina raggiunse più da vicino la famiglia Colajanni: carrozza, cavalli, quadri, mobili, scuderie, fienili e lo stesso palazzo, furono venduti all'asta e per poco prezzo (e lo sfacelo mostrò ancora una volta la vastità e la ricchezza di quel patrimonio, come un cumulo di rovine dà idea della mole dell'edificio crollato). Don Ignazio non credeva ai suoi occhi né alle sue orecchie; confuso, istupidito (più del solito, vorremmo aggiungere) si andava chiedendo, nel generale coro di querimonie, che ne fosse di quella che lui e gli altri del suo rango ritenevano una sorta di legge di natura: quella che sanciva il diritto all'agiatezza e all'ozio per chi, come lui, era nato signore. Legge per la quale, nell'ordinamento dell'umana società creato da Dio (e qui si giungeva ad invocare la Sua volontà) dovevano esservi accanto ai signori, i poveri e coloro che per sopperire ai propri bisogni dovevano piegarsi al duro lavoro. Ritenne allora, tra il consenso unanime e ipocrita di quanti lo circondavano, che si stava compiendo un destino già scritto ed ineluttabile; un fato avverso che faceva strumento di sé uomini malvagi e ladri e gente da sempre invidiosa della ricchezza e della fortuna della sua famiglia. Assunse, quindi, con amara ma dignitosa rassegnazione il ruolo del "nobile decaduto"; figura che in quei tempi s'andava diffondendo ed acquisiva perciò una sorta di propria fisionomia sociale.

Don Ignazio sebbene non fosse molto avanti negli anni, appariva precocemente invecchiato anche per la mancanza di quanto la cura minuziosa della persona e l'abbigliamento elegante di solito aggiungono, migliorandola, a una scialba figura, ma non fu mai trasandato. I suoi modi erano signorili, pur se la sua istruzione era andata ben poco oltre quella elementare, salvo che per quel poco appreso durante l'adolescenza e la gioventù da letture sporadiche e disordinate. Queste concernevano soprattutto nozioni di ingegneria navale da quando aveva avuto notizia, non sapremmo dire per quale via, degli esperimenti di navigazione sottomarina e della costruzione del Nautilus avvenuta in Francia tra la fine del Settecento e i primi anni dell'Ottocento.

Grazie ad un minuscolo lascito della zia Rosina, Don Ignazio poteva disporre di una casipola e di un misero vitalizio sufficiente appena per un piatto di minestra: tanta e non di più era la fetta di proprietà che spettava alle femmine in casa dei Colajanni. In tale ambiente, nella solitudine, provò sensazioni nuove e sentì come stringerglisi intorno il piccolo mondo domestico (la casipola constava di un vano al pianterreno e di un unico vano con il camino al primo piano, al quale si accedeva da una scala esterna a ballatoio). Presero contorni definiti e nuovi persone e cose che pur gli erano note da tempo: la spazzola per abiti, suo unico oggetto personale salvato dal naufragio che avesse un qualche valore per il massiccio dorso d'argento, il piccolo caldaio in cui scaldava l'acqua, la conca, il mestolo, ebbero un'importanza ed una collocazione nella sua vita mai immaginate prima. Alla donna che gli portava il parco vitto (il piatto di "minestra calda", qualche uovo, una ciotolina di latte) s'accorse di rivolgere un'attenzione ed un sorriso che mai nei tempi andati aveva avuto per alcuno. Man mano che passava il tempo e lo scambio quotidiano sulla porta di casa della scodella vuota con quella piena scandiva le giornate di Don Ignazio, gli interrogativi sui vari aspetti della sua disgrazia, le soluzioni migliori che retrospettivamente immaginava per problemi ormai malamente risolti, andavano occupando sempre meno i suoi pensieri. Gli balenava talvolta il ricordo degli sconfinati panorami di Puglia e delle sue arse terre, riassorbite e svanite per sempre nella caliginosa, rovente linea di quegli orizzonti lontani. I diritti di nascita e di casta cominciavano a mostrarglisi del tutto privi di un loro valore effettuale, di una intrinseca consistenza, quando non fossero sostenuti dal danaro. Non così l'orgoglio delle sue origini signorili. Per troppo tempo se ne era nutrito e a volte pareva gli ribollisse dentro; allora gonfiando d'aria il petto ed ergendosi nella persona "sono un signore", ripeteva a sé stesso; quasi che, così facendo, ristabilisse pur dalla sua umile condizione, una distanza sociale non più esistente nei fatti.

La vita di Don Ignazio fu ancora lunga, come la durata del suo "abito da passeggio" per i rammendi fini e sapienti che vi faceva; delle sue scarpe, sempre lustre del nerofumo raschiato al camino; del colore biondo cenere dei suoi capelli curato con tintura ai malli di noci e dei suoi misteriosi lavori nel vano terraneo della casipola, di dove venivano sovente rumori di lamiere battute e ribattute. Don Ignazio vide estinguersi altre famiglie di signori nella cittadina, con parabole che ripetevano quella dei Colajanni. Egli però era stato meno sfortunato dei superstiti di tali famiglie, i quali nella maggior parte dei casi dovettero essere accolti nella casa comunale dei poveri, dove in due grossi vani numerosi giacigli erano allineati contro le pareti e ciascun mendìco aveva il suo minuscolo focolare, tra due sassi, sotto la cappa di un unico grande camino. Ciò che più sollevava lo spirito di Don Ignazio, era il fatto di aver conservato, pur nelle sue misere condizioni, quello che considerava il privilegio irrinunciabile della sua casta: vivere senza lavorare e senza chiedere l'elemosina. Quando negli ultimi anni, scambiando con minor riserbo chiacchiere e convenevoli col vicinato, apprendeva le novità del luogo, le notizie sui nuovi ricchi e sulla costituzione di patrimoni fatti con l'esercizio delle arti liberali o col commercio e lo spirito d'impresa, rimaneva dubbioso e perplesso. Rientrato in casa sia d'estate che d'inverno sedeva accanto al camino; caricata e accesa la pipa fumava con rare boccate tornando col pensiero ai momenti felici e fastosi della sua giovinezza, alla pompa dei ricevimenti, al rispetto puntiglioso della forma secondo i gusti dell'epoca. Considerava che tutto ciò sarebbe rimasto per sempre ignoto ed estraneo ai nuovi ricchi, i quali all'occasione sarebbero apparsi impacciati e ridicoli nel nuovo ruolo sociale e sorrideva di genuina commiserazione per loro. Spenta la pipa la puliva con cura, scalzava il tabacco bruciato dal fornello e lo vuotava picchiando lievemente su una mensola che gli era accanto. Rimaneva, poi, con le braccia conserte e la pipa spenta in mano, a seguire il filo dei suoi pensieri. A questi il tempo aveva conferito una patina di pacatezza, forse di indifferenza e tra gli altri aveva insinuato, naturale, l'idea della morte. Che Don Ignazio più volte immaginò nei particolari esteriori, vista e commentata dalle uniche persone che l'avrebbero notata: le comari del vicinato che per due o tre giorni ne avrebbero fatto argomento del loro cicalìo. Le immaginò alla porta che picchiavano e lui, morto, recchie rifredde come si diceva in paese, che non rispondeva. Toc-toc "Don Ignazio! Don Ignazio la minestra!" e Don Ignazio Colajanni, recchie rifredde, non risponde. Vociare di persone che si consultano, ciarr, ciarr,...Colpi più forti all'uscio..."Don Ignazio, Don Ignazio!..." Poi la decisione di entrare comunque in casa: "Può star male... macché, sarà morto!" Ciarr...ciarr...

Infine l'entrata in casa dalla finestra: "E' morto, è morto Don Ignazio!" E la stura ai commenti e ai pettegolezzi delle comari, entrate finalmente dalla porta spalancata dal di dentro, alla scoperta del suo piccolo, misero mondo privato, custodito gelosamente per tanti anni: "Uh, quante cogne d'ova!...Quante scalzature di pipa! –Ciarr e ciarr; quelle ciaraffe di femmine non terranno un momento la lingua ferma– Quanta cenere nel camino, uh!...–Ciarr e ciarr... E Don Ignazio Colajanni recchie rifredde!–"

Così proprio accadde. E quando fu aperto il vano a pianterreno, vi si rinvenne un grande scafo fatto di lamiere, bandoni e tubi, dalla forma di un grosso uovo in cui un uomo poteva entrare e chiudervisi: era la ricostruzione del Nautilus pensata da Don Ignazio. Per liberare il vano si dovette fare a pezzi questo progenitore del sottomarino.

DON DONATO

 

La ventata rivoluzionaria del milleottocentoquarantotto, come già quella del ventuno, aveva coinvolto vari cittadini di Pescocostanzo. Di alcuni per la partecipazione attiva che ebbero a quei moti si fa menzione nei libri di storia patria. E' solo l'umile cronaca orale, però, a narrare le vicende di quei galantuomini che gli stessi eventi chiamarono in una sorta di appello togliendoli, loro malgrado, alla quiete delle occupazioni domestiche. La storia, infatti, quella con la esse maiuscola, suol relegare questi uomini nell'oblio per dedicare tutte intere le sue pagine all'agiografia dei re e degli eroi, ai nomi dei trattati e delle battaglie.

Così, frugando nella memoria delle voci e delle narrazioni udite, troviamo don Donato che alla vigilia delle festività natalizie di quell'anno si arrovella alla ricerca di una soluzione per un suo personale problema quarantottesco. Don Donato è un prete, né primo né ultimo a comparire in questi racconti; sarà opportuno perciò dir subito che nei secoli scorsi di preti in Pescocostanzo se ne contarono anche trenta, quasi tutti canonici col loro stallo in chiesa, detta perciò Collegiata, e che di chiese nella cittadina, per le sue duemila anime (ché mai furono di più) ve ne erano una dozzina, quasi tutte esistenti e officiate ancora oggi. Non sarà fuor di luogo far cenno anche di quel Reverendissimo Capitolo di Canonici che teneva alto il suo prestigio con la dottrina di molti suoi componenti e con il rigoroso, puntiglioso rispetto degli antichi riti e tradizioni cui erano improntati gli uffici religiosi.

Giungono fino a noi, seppur sbiadite, le immagini del fasto di quelle cerimonie: nelle processioni i canonici sfilano in cappamagna, d'inverno con la mozzetta di bianco ermellino e d'estate con quella di seta color viola. Quando le processioni si svolgono all'interno della Collegiata, nei vespri solenni delle festività, al lume di mille candele, tra due siepi di fedeli, pare si sia animato il quadro di un pittore barocco napoletano: il Rettore del Capitolo e i diaconi che lo affiancano, paludati negli antichi piviali ricamati con fili d'oro e d'argento, portano sotto il drappo del baldacchino il Santissimo nell'ostensorio, quello grande che pare un sole. Volute di fumo odoroso d'incenso s'alzano dai turiboli tra i grandi archi verso i soffitti aurei delle navate. Echeggiano robuste le note dell'organo, al quale sono annessi tutti gli strumenti di un'orchestra (tamburo, grancassa, piatti) che l'organista aziona quando vuol spingere all'acme e rendere compiuto il fervore religioso del consesso. Il Te Deum, col canto amebeo delle strofe tra le voci femminili e quelle virili, pare una strenua gara di fede tra i due gruppi di cantori e mai si può cogliere sui volti più schietta e profonda espressione di fede. Così le cerimonie della Settimana Santa: il Passio cantato dai Canonici con gli assolo in basso profondo di don Gregorio che fa il Cristo: "Quem quaeritis?..." e le voci in contralto della turba: "Crucifige, crucifige eum...". Tutti i fedeli sono lì, poi, ad aspettare che don Pietro faccia il gallo: "Gallus cantavit chichirrichiii!..." Che pure il chicchirichì interpolato da quel canonico nel Vangelo pare detto in latino! C'è, poi, il sepolcro con gli 'stutafferro' (così il popolo chiama i due giovanotti che indossano un'armatura medievale, con elmo chiuso e piumato) che vogliono rappresentare le guardie messe da Pilato attorno al sepolcro di Cristo: quando Cristo risorge cadono a terra come folgorati. La gente viene dai paesi vicini ad assistere a questa sacra rappresentazione e, quando i due armigeri rovinano a terra con fragore di ferraglia, un brivido di spavento corre tra le donnette che pregano e contemplano l'austero sepolcro. Buffa e tipica è l'esclamazione dialettale di sbigottimento delle donne di Rivisondoli: "Naire, naire ru muarracine!" Ripresa poi dai giovanotti che le attendono all'uscita dalla chiesa.

Di questo Reverendissimo Capitolo faceva parte don Donato. Ma al contrario di altri due suoi fratelli maggiori, pure canonici, che avevano meritata fama di grande dottrina e tenevano lezioni di teologia e di filosofia, lui il latino lo aveva sempre digerito male e così pure le altre materie che in seminario avevano tentato di fargli apprendere. Prete era diventato per volontà dei genitori e perché, l'abbiamo già detto in altra occasione, quello era l'interesse della famiglia. L'autorità e forse qualche "raccomandazione" dei dotti fratelli gli avevano ridotto le difficoltà degli studi in Seminario; poi, col tempo, era anche diventato canonico. Ma il suo temperamento sanguigno, il fisico robusto, il senso pratico della vita, i suoi modi spicci ed energici, lo spingevano più che alla preghiera e alla meditazione, a coltivare passioni ed interessi terreni e primo fra tutti il sentimento dell'amicizia e del vincolo familiare; che poi nell'età anziana si manifestò come tenero affetto per i nipoti, visto che a lui moglie e figli erano stati negati.

Per tali motivi, avvalendosi anche di quella sorta di protezione che il prestigio dei fratelli gli assicurava, ogni volta che era possibile marinava –oseremmo dire– le più lunghe e impegnative funzioni religiose. A cavallo, fucile ad armacollo, sorvegliava i lavori agricoli dell'azienda familiare e andava a caccia. Gli accadde così, una volta, di essere colto in fallo dallo stesso Padre Abate che era andato in paese per la consueta visita pastorale. Don Donato aveva fatto giustificare la sua assenza tra il clero che aveva accolto il vescovo e aveva celebrato con lui in chiesa le solenni funzioni della circostanza, adducendo a motivo una sua lieve indisposizione (ché invece aveva la trebbiatura in corso e doveva sorvegliarne l'andamento). L'Abate, però, colse don Donato in faccende durante la passeggiata che faceva per digerire il lauto pranzo che il Capitolo gli aveva offerto al termine delle funzioni religiose. Il canonico era presso un carro dal quale due garzoni scaricavano dei sacchi di grano: ne portava il conto su un suo taccuino e, tra un viaggio e l'altro degli operai, esaminava con l'occhio del padrone il paio di buoi aggiogato al carro, suo recente acquisto alla fiera dell'Annunziata. L'Abate ritenne di non potersi esimere dal fare una paternale a quell'indisciplinato prete e gli si avvicinò con fare deciso. Ma don Donato, come se lo vide avanti lo prevenne e, dopo aver baciato l'anello pastorale con un rapido inchino: "Padr'Abate –disse allargando le braccia– quando non oremus, aramus!"

Don Donato, dunque, all'approssimarsi delle funzioni religiose del Natale del 1848 era in preda all'angoscia. Quando s'era sparsa in paese la voce di imminenti indagini poliziesche e di perquisizioni per la repressione delle cospirazioni e dei moti rivoluzionari di quell'anno, alcuni amici liberali s'erano rivolti a lui perché li aiutasse a cavarsi d'impiccio. Loro s'erano preparati a partecipare all'insurrezione e perciò si erano muniti di armi e di un barile di polvere, ma l'andamento delle cose aveva preso una diversa piega e la notizia delle perquisizioni ora li aveva colti di sorpresa. Erano riusciti a nascondere le armi e i documenti, ma non sapevano proprio dove mettere un barile di polvere, che però, volevano conservare ad ogni costo. Forse lui poteva aiutarli!

Anche in quella circostanza don Donato non smentì la fama della sua generosità. Tranquillizzò gli amici in ansia e disse che avrebbe pur trovato il modo di dargli una mano. Intanto loro dovevano portare nottetempo in casa sua il barile. Il nascondiglio lo aveva già in mente: nel coro della chiesa del Suffragio, attigua alla sua abitazione, sotto lo stallo del Priore della Confraternita di S. Maria, c'era un ripostiglio che ben pochi potevano conoscere, lì avrebbe potuto nasconderlo e star tranquillo per tutto il tempo delle perquisizioni. Altra scelta non l'aveva per dare tempestivo e valido aiuto ai suoi amici. Così poi aveva fatto. Ma all'approssimarsi delle festività natalizie, seguite in breve volgere di tempo dalle funzioni delle Quarantòre, il barile era ancora lì. Era cessato il timore delle perquisizioni, da quei giorni era trascorso molto tempo, ma nessuno gli aveva più detto di volerselo riprendere. Quelli che personalmente s'erano rivolti a lui per chiedergli aiuto non erano in paese e, a quel che gli era stato detto, ne sarebbero rimasti fuori a lungo; ad altre persone pure coinvolte in quella faccenda, don Donato non riteneva prudente e opportuno parlarne, sicché, come era stato solo nel mettersi nei pasticci, così ora da solo doveva tirarsene fuori. Ciò che più di tutto lo rendeva inquieto era il pensiero della lunga permanenza dei confratelli negli stalli del coro durante le salmodìe che in quella chiesa si svolgono in tali ricorrenze e della luminaria di candele che s'accendeva alla sera. C'era ben ragione di temere che qualche candela potesse diventare la miccia di quel barile di polvere. "Allora addio Priore, confratelli e chiesa!" si andava ripetendo mentre rimuginava in che modo avrebbe potuto disfarsi del barile quando l'avesse tolto dal nascondiglio. Meditò e rimeditò ogni possibile soluzione; la migliore, dopo tanto rovello, gli parve quella di andarlo a gettare in un fosso ai margini dell'abitato che assolveva le funzioni di pubblico immondezzaio. Lì lo avrebbe ricoperto la neve che già da qualche giorno cadeva abbondantemente. Al disgelo, a primavera, la polvere sarebbe stata bell'e dissolta. Portare il barile in spalla per tre o quattrocento metri, ché tanto distava quel luogo dalla chiesa, non era per don Donato gran fatica; si sarebbe tolto così definitivamente il pensiero, e quale pensiero!

A notte fonda, mentre il paese era dominio solo del gelo e della tormenta, certo di non incontrare nessuno per strada, don Donato, barile in spalla, esce furtivo dal portone della chiesa. Doveva scendere la gradinata sulla quale essa prospetta, attraversare il sagrato che ha l'antico nome di "Largo Avanti La Chiesa" e che ora tutti dicono "Capocroce", quindi, dopo un altro breve tratto di strada, avrebbe raggiunto la meta. Ma il peso di quel fardello, il ghiaccio incrostato sui gradini, le raffiche di vento congiurano tutt'insieme ai suoi danni e don Donato al primo gradino della rampa scivola e con una giravolta su se stesso cade a terra. Il barile, come lanciato apposta, viene proiettato lontano e picchiando e rimbalzando di gradino in gradino con rumore sempre più fesso si schianta sul sagrato spargendo la polvere a terra. A don Donato si gela il sangue; l'istinto della fuga e il panico soverchiano il dolore acuto dell'urto improvviso e violento contro gli spigoli; si rialza da terra e corre a chiudersi in casa tremando dalla paura. Passa il resto della notte a pregare e a invocare il buon Dio che mandi giù la più abbondante delle nevicate che a memoria d'uomo si ricordi.

Intanto Agatuccia di Benilda, la fornaia, già al lavoro da tempo, era in giro nella notte a "dar l'ammassata". Essa, infatti, dopo aver acceso il forno e calcolato l'ora in cui sarebbe stato a punto per la cottura del pane, si recava di casa in casa ad avvisare quelli che si erano prenotati perché ne iniziassero l'impasto. Nelle notti buie la buona donna si rischiarava la strada agitando un tizzo ardente tolto dal forno. Così, non molto tempo dopo l'infortunio occorso a don Donato, la donna, stretta nello scialle, attraversa il "Largo Avanti la Chiesa" e scorge nel candore della neve la macchia scura della polvere sparsa a terra: "Ecco il mantello caduto al solito ubriacone nottambulo!" pensa e, per discernere meglio, avvicina il tizzo alla macchia scura. La vampa è istantanea, il buio diventa luce accecante che avvolge e bruciacchia la donna. L'urlo che le esce dal petto si ripete ancor più alto ed acuto quando quella, parendogli di sentire odore di zolfo, pensa che fosse stato il diavolo in persona a tenderle quel tremendo agguato. Così, urlando e segnandosi, corre anche lei a rinchiudersi in bottega.

La neve che già era in terra e quella caduta sulla polvere dopo la rottura del barile le avevano salvato la vita; quella che poi cadde ancora per le preghiere del canonico, mai così fervide, coprendo tutto salvò la sua buona pace.

Don Donato ebbe notizia, poi, come tutti in paese, della visita notturna del diavolo e ne fece oggetto alla messa della domenica successiva di una delle sue rare e brevi prediche: fossero tutti più pii e buoni, ché, come avevano potuto ben udire, il diavolo teneva loro addosso i suoi occhi porcini.

RISORGIMENTO

 

L'avvocato si accomiatò da Don Giuseppe Andrea, suo facoltoso e affezionato cliente, e tornò a sedersi alla scrivania; mentre riuniva in un fascicolo le carte che aveva esaminato con lui, risuonarono per le scale e nell'androne i latrati dei due spocchiosi alani di quel signore, segno dell'ultimo proditorio attacco mosso contro di loro dal gatto di casa. Legò con un nastro il fascicolo e prese da un cassetto la borsa da tabacco che Giuditta aveva ricamato per lui. Non attendeva la visita di altre persone per quel giorno e, caricando la pipa, volse il pensiero ai preparativi delle sue nozze. Le avevano fissate per l'autunno, ormai prossimo, di quell'anno 1849. In quel momento bussarono, con insolita energia, alla porta dello studio. "Avanti!" ordinò, ma non aveva ancora pronunciato la parola che già nella stanza era entrato Bastone, il suo uomo di fiducia. "Cosa c'è? –disse scrutandolo– ti sei sbrigato presto oggi a Sulmona!".

"Gnorsì, avvocato! –confermò Bastone ansante– perché al Tribunale ho incontrato quel giudice amico vostro...il cavalier Alippio, che mi ha chiamato, si è fatto da parte con me e mi ha dato per voi un biglietto urgente, riservato...–nel dir così Bastone s'andava frugando sotto la camicia– E ha detto che dopo che lo avete letto, Vossignoria lo dev'abbruciare!..." Dalla camicia di Bastone venne fuori allora un piccolo plico, fermato con un minuscolo sigillo di ceralacca, che l'avvocato prese e aprì subito. Bastone lo vide abbuiarsi in volto, alzarsi di scatto dalla sedia e uscire lesto dalla stanza chiamando: "Francesco, don Francesco!...mio fratello dov'è?"

Trovò il canonico di sopra nella sua stanza; presso il balcone, alla luce incerta del tramonto, stava sfogliando un libro che non gli parve il breviario. "Tieni, leggi! –proruppe– che hai fatto? perché mi arriva questo biglietto?"

Il canonico posò il libro su un tavolo, prese il foglio che il fratello gli tendeva, s'avvicinò al lume che era sullo scrittoio e lesse: "Indagini su F. Possibile arresto".

"Perché queste indagini? che hai fatto per provocarle? che farai ora?" cominciò a incalzare l'avvocato.

"Domattina presto partirò per gli esercizi spirituali. Ne ho già avvisato il Rettore del Capitolo." Rispose il canonico, ostentando la tranquillità di chi ha già la soluzione di un difficile problema.

"Ma ti troveranno...dimmi piuttosto che cosa è successo!"

Il canonico allora, abbassando il tono di voce, con un fare circospetto che al fratello risultò nuovo nel suo contegno e ancor più allarmante di tutto quel che gli stava accadendo intorno, disse: "Io non andrò per questi esercizi né a Montecassino, né negli altri luoghi soliti... Andrò invece a Popoli, dai parenti Zecca; lì hanno la possibilità di tenermi nascosto!" Poi, alle altre insistenti domande del fratello, il canonico rispose cercando soprattutto di calmarne l'evidente stato di ansia al fondo del quale scorgeva il grande affetto che li univa. Tentò di rassicurarlo dicendogli che poteva esser certo che lui non aveva mai fatto del male ad alcuno (e questo poteva giurarglielo) che forse in tutta la faccenda c'era qualche errore, qualche malinteso. Infine disse che l'arresto non era ancora avvenuto e non era poi certo, anche se erano tempi nei quali la polizia ne faceva uso largo e disinvolto.

"In ogni caso –concluse– il fatto riguarda solo me e io sono pur sempre un sacerdote!"

L'avvocato, per nulla rassicurato da quelle parole, insisteva per conoscere i particolari della vicenda. "Se tu parti, per gli esercizi o no –disse– non potremo certo comunicare tra noi con facilità, e io, ignorando fatti e circostanze precise, ben poco potrò fare in tua difesa!"

Don Francesco allora, come avesse d'un tratto mutato parere, "Beh sì!.. –ammise– non si può trattare di altro che di qualcosa in rapporto con i miei sentimenti liberali, anche se sono sicuro che non sono trapelati fuori dalla cerchia delle mie amicizie, nella quale entrano solo persone intime e fidate. Il motivo di queste indagini –aggiunse dopo una lieve esitazione– deve essere il fatto della benedizione..."

"Cioè?"

"E' successo qualche settimana addietro, mentre eri a Napoli per le udienze delle tue cause; ma già in paese non se ne parla più..."

"Ma di quale benedizione si tratta?"

"Io –riprese il canonico– m'ero lasciato crescere i baffi e il pizzo alla Vittorio Emanuele, come ora si dice, e così senza neppure farlo proprio apposta, ho impartito la benedizione serale nel mio giorno di turno; che poi è capitato di domenica, con la chiesa gremita".

"I baffi alla Vittorio Emanuele! E ti pare poco? non sapevi forse che i Borboni fanno da tempo la guerra ai peli?"

L'avvocato non voleva credere alle sue orecchie. Ma ora gli si era aperta la mente; il tenue filo di speranza della estraneità di suo fratello al movente di quelle indagini si era spezzato, e vedeva d'un tratto, reale, chiaro, imminente il pericolo: l'arresto del fratello e il coinvolgimento di tutta la famiglia nei sospetti polizieschi. Si sentì improvvisamente nelle vesti scomode del perseguitato politico proprio alla vigilia delle nozze. Fu sul punto di esplodere in un aspro rimprovero per la sconsideratezza di cui aveva dato prova il fratello, a lui maggiore di età e per di più sacerdote, nel palesare così imprudentemente i suoi sentimenti politici, ma si trattenne: una lite tra loro in quel momento avrebbe potuto spingere suo fratello ad azioni avventate. Lui, a quel punto, doveva cercare di conoscerne a fondo i propositi per l'immediato futuro; cercare di ragionarci con calma, almeno con quella calma che sarebbe riuscito a imporsi in quel frangente; indurlo a più meditato consiglio! Prese tempo, perciò, dicendo che a quel punto urgeva dare disposizioni perché fosse pronto il cavallo per il viaggio del mattino successivo e che sarebbe andato lui a provvedervi prima che si facesse troppo tardi. S'avviò per uscire dalla stanza; sulla porta però, come preso da un ribollire improvviso di una collera repressa, proruppe: "Ma non ti bastava il ricordo dei guai del '21?" poi, come se un nuovo pensiero gli si fosse fatto strada nella mente in quell'istante, esclamò: "Ora stai a vedere se non verrà fuori qualche strascico anche di quella vecchia storia!" Chiuse dietro di sé la porta e si allontanò.

* * *

L'avvocato si riferiva alle vicende, anch'esse accompagnate da patemi d'animo e da ansie, occorse alla sua famiglia nel 1821 quando il padre, Don Giancarlo, nella veste di pubblico amministratore, aveva dovuto provvedere a ché si risolvesse con i minori danni possibili per la cittadinanza l'indagine poliziesca che un distaccamento di gendarmi austriaci doveva compiere in paese. Don Giancarlo, uomo di buon senso e di buona cultura, considerò che i tedeschi (così allora venivano comunemente chiamati anche gli austriaci) in quel caso non agivano per proprio conto, ma pel Borbone spergiuro a Lubiana, come a dire in conto terzi. Pensò, dunque, che se si fossero potuti evitare incidenti di rilievo durante la permanenza di quei militari in paese, alla fine non si sarebbero lamentati grossi danni. Curò quindi che la municipalità adempisse a tutti gli obblighi formali che le circostanze imponevano; stabilì gli alloggi della truppa evitando che fossero in prossimità delle case di donne sole o di famiglie particolarmente indifese e decise poi di tenere gli ufficiali austriaci in casa propria. Avrebbe potuto così rilevare per tempo i loro umori e, se possibile, orientarli verso il sereno.

In tale circostanza ritenne norma di elementare prudenza quella di sbarazzarsi delle armi che erano in casa e gettò le sue pistole da arcione nel pozzo che era nella corte del suo palazzo. Avvisò poi con circospezione gli amici dell'indagine imminente, soprattutto coloro che avevano fama di essere carbonari. Venne allora a conoscenza di fatti che forse neppure immaginava: costoro, avendo stabilito contatti con cospiratori di altri paesi e città vicine, tenevano elenchi di affiliati, cifrari, formule e altri documenti della loro attività segreta; tutte "carte", come essi le chiamavano, che dovevano essere assolutamente conservate con cura e, naturalmente, sottratte alle perquisizioni; ché, se la polizia avesse messo le mani su quel materiale, alcuni concittadini sarebbero finiti nelle galere napoletane e qualcuno addirittura sulla forca. A questo punto, col tempo che urgeva, Don Giancarlo pensò di agire da solo e, per trarsi d'impaccio e salvare i congiurati, ritenne miglior partito quello di nascondere lui stesso i fascicoli delle "carte". Prima dell'arrivo degli austriaci in casa sua, tolse il piano di uno dei gradini della scala che conduceva proprio all'appartamento destinato ad alloggio degli ufficiali, nascose le carte dei carbonari nel vuoto del gradino e rimise a posto il piano.

I tedeschi vennero, effettuarono indagini e perquisizioni dappertutto, ma non trovarono nulla che destasse i loro sospetti. Don Giancarlo e i suoi familiari pur durando fatica, riuscirono a dissimulare la loro apprensione nel vedere ogni giorno gli ufficiali salire e scendere sulle prove della congiura che avrebbero dovuto scoprire. La prima ispezione della giornata, comunque, quegli ufficiali la compivano nella cantina di Don Giancarlo dove avevano scoperto una botte di buon vino e il lardo di cui erano ghiottissimi. Sguainate le sciabole, ne tagliavano grosse fette dai pezzi appesi ai ganci per la stagionatura e così le mangiavano, accompagnando i bocconi con lunghe sorsate del vino spillato, passandosi il boccale.

Quando i tedeschi ripartirono, il lardo dei quattro maiali ammazzati quell'inverno per le provviste di famiglia era finito e la botte, percossa, risuonò vuota. Scampato il pericolo l'attività dei carbonari, però, non riprese come prima; quel che allora più urgeva, ché s'era ancora a capo dell'inverno, era di ricostituire le provviste. La soldataglia affamata e ladra, non solo in casa di Don Giancarlo, ma in tutto il paese aveva fatto man bassa del ben di Dio trovato nelle dispense e, forse, se ne era andata al buon viaggio solo quando queste erano state vuotate. Trascorse così del tempo, anzi a dire il vero trascorsero degli anni, e alle carte celate nel gradino di Don Giancarlo non pensò più nessuno. Queste antiche vicende, accadute quando il canonico e suo fratello erano fanciulli, si erano poi narrate le mille volte in famiglia; talora come nota di colore della cronaca domestica per quelle uniformi che ora sembravano ridicole, per le parole e i nomi stranieri che i bambini avevano orecchiato, interpretato e ripetuto a modo loro; ma più spesso il racconto aveva avuto accenti di dolore e di sgomento e, a chi narrava, pareva di udire ancora il tintinnio delle sciabole e il tonfo di quei passi pesanti e stranieri in casa propria.

Il ricordo di quegli eventi era stato fatto dall'avvocato al fratello per il significato, che sempre s'era colto nel tono della narrazione familiare, di ammaestramento ad essere più prudenti e avveduti in futuro nello scansare simili pericoli. Quel ricordo, invece, mostrò –come accade sempre per ogni memoria di eventi passati– la sua ambivalenza e la contraddittorietà delle possibili interpretazioni e dei giudizi che se ne possono trarre quando si voglia cavare dai ricordi un esempio, una lezione di vita, o se ne voglia fare sostegno di una specifica tesi. Il canonico, infatti, ritenne quella l'occasione giusta per esprimere il suo punto di vista e le sue convinzioni politiche, a cominciare proprio da quegli antichi eventi. Sicché, quando il fratello tornò a dirgli che il cavallo sarebbe stato pronto per il mattino successivo, prima ancora che suonasse il mattutino, ringraziatolo in modo spiccio dell'interessamento, come se cedesse ad un impeto interiore, proruppe dicendo:

"Se per l'innanzi ho lasciato ripetere la storia dei fatti del '21 come quella di un guaio capitato tra capo e collo a nostro padre è stato solo perché non avevo voglia, o non m'era parso opportuno, attaccare discussioni e battibecchi in famiglia su cose passate da tempo e per rispetto a nostra madre. Ora però tu devi sapere che io intendo appunto seguire l'esempio di nostro padre che fu attivo e partecipe degli eventi politici di quel tempo. I rischi ai quali espose sé e la sua famiglia, da uomo avveduto quale notoriamente era, doveva certamente averli ben valutati e tuttavia accettati!"

"Ma quei guai nostro padre non era andati a cercarseli di proposito!" lo interruppe l'avvocato, tentando di frenare l'entusiasmo che stava scoprendo in suo fratello. Il canonico, come non lo avesse udito, continuò con ironia:

"E se quei moti fallirono è proprio perché c'è troppa gente ad aver paura o, che mi sembra peggio, troppi individui eccessivamente cauti e inerti di fronte a qualsiasi avvenimento che sia appena fuori dell'ordinario, specie se di natura politica!"

Prima che l'avvocato avesse tempo di rispondergli una domestica avvisò che la cena era pronta e che la signora madre era già seduta a tavola. I fratelli si recarono allora senza più discutere nella sala da pranzo. Qui, dopo aver salutato la madre e preso conto delle sue condizioni di salute, che negli ultimi tempi erano parse meno buone, il canonico recitò la breve preghiera di ringraziamento e fu consumato il pasto serale. Mentre cenavano in silenzio, l'avvocato, rimuginando le parole del fratello se ne dispiacque, si urtò, sentì accendersi d'ira pensando alla tempesta che gli si era andata addensando sul capo mentre, ignaro, attendeva ai preparativi delle nozze e curava anche quei particolari di secondaria importanza che gli parevano graditi a Giuditta. Ora la data del matrimonio si sarebbe dovuta rinviare a chissà quando e per colpa proprio di suo fratello che lo avrebbe dovuto celebrare in segno di reciproco affetto! Quale passione aveva irretito la sua mente tanto da renderlo dimentico dei sentimenti che sempre li avevano uniti? davvero, poi, riteneva inerte il suo senso civico, spenta la sua sensibilità per i problemi politici? non era piuttosto lui ad esser fuori della realtà, a giudicare da quello che poco prima aveva detto? bel cospiratore è, poi, quello che indossa il distintivo della sua attività, come il fratello aveva fatto con la storia dei baffi!

L'avvocato sentiva la sua mente aperta e pronta a ogni nuova cognizione che in tutte le attività umane e in tutti i campi del sapere significasse progresso; ma la riteneva valida solo se gli pareva idonea a superare la prova dei fatti, se mostrava una sua intrinseca consistenza. I programmi dell'ala più radicale dei liberali, ai quali ormai era certo che si ispirava il pensiero di suo fratello, gli parevano privi di concretezza, utopistici, avventati; il cambiamento dinastico nel regno o la sua trasformazione in repubblica sull'esempio del '99 e la stessa unificazione d'Italia (che l'avvocato considerava remota se non impossibile) non erano condizioni indispensabili per dare avvio alla soluzione di quei complessi problemi sociali ai quali si riferivano le parole "democrazia" e "fratellanza", così spesso ripetute. Durante gli studi universitari compiuti a Napoli egli aveva appreso e sentito più congeniali al suo animo pragmatico le idee e le aspirazioni dei liberali più moderati: il ritorno della monarchia alla forma costituzionale e l'avvio di un graduale processo di riforme economiche e sociali di cui, peraltro, lo stesso Ferdinando II aveva dato qualche cauto saggio. Si era proposto, allora, di approfondire prima di tutto concettualmente quei problemi e di scegliere poi le persone giuste con cui discuterne ed eventualmente operare; naturalmente con tutta la cautela che le circostanze richiedevano. Tanto più impulsivo e fuor di luogo, quindi, gli era parso il modo di agire del canonico proprio in quel momento in cui la repressione del Borbone stava infuriando su quanti direttamente o indirettamente avevano manifestato idee liberali. Restò comunque fermo nel proposito di non mostrare chiaro e netto al fratello il biasimo per l'atteggiamento arrogante che aveva assunto nei suoi confronti.

Dall'altra parte, per una delle leggi fondamentali della natura che vuole gli uomini diversi, specie nell'intelletto, tanto l'avvocato era analitico e riflessivo nei giudizi quanto suo fratello era intuitivo e sintetico nel pensiero. Don Francesco, infatti, giovane e brillante canonico, in seno al Capitolo della Collegiata aveva stretto amicizia con la fazione degli elementi più spregiudicati, della quale facevano parte anche alcuni sacerdoti anziani ma di spirito aperto, che si erano formati nel clima culturale del decennio francese, e ne aveva assimilato le dominanti idee liberali. Essi formavano una sorta di manipolo che si opponeva al più consistente gruppo di canonici conservatori e leggittimisti. Dottori in teologia, poeti, cultori di scienze filosofiche e letterarie, latinisti, erano soliti riunirsi con amici laici della stessa idea, in circoli conviviali; nelle lunghe serate invernali, al calore dei ciocchi di faggio ardenti nei grandi camini delle antiche case pescolane e dei calici di buon vino levati nei brindisi, scorrevano torrenti di eloquenza, di poesia, di buon umore e, per l'appunto, di fervore liberale. Ma queste runioni, pur fatte con certo riserbo e con le apparenze di accademie filosofiche e letterarie, non erano passate inosservate all'occhio vigile degli avversari e qualcuno di essi doveva averne dato notizia alla polizia.

* * *

Dopo cena e dopo aver augurato la buona notte alla madre i due fratelli, ciascuno con i suoi pensieri in testa e le labbra serrate dal malumore, sentendo che in ogni caso avrebbero avuto di che parlare, sedettero nei seggioloni posti innanzi al camino.

A rompere il silenzio fu l'avvocato: "Per fortuna –disse– il tempo è asciutto; se per la pioggia fossi dovuto partire in carrozza sarebbe stato difficile tener segreta la destinazione del tuo viaggio!"

"Vedi che non tutto va male?"

"Si, ma devo ugualmente dirti con franchezza che non riesco a capire i motivi che ti spingono a essere partecipe con tanto ardore delle confuse idee e dei programmi contraddittori che diffondono democratici, radicali e repubblicani in perenne disaccordo tra loro; concordi solo nell'ostacolare l'opera degli elementi moderati. E' necessario cercare tanto lontano e con trasformazioni politiche addirittura rivoluzionarie le regole del buon governo e della saggia amministrazione? Non si sarebbe fatto già un grande passo avanti se si fosse ottenuto dal re il rispetto della costituzione, invece di provocarlo e di offrirgli il destro di calpestarla innalzando un anno fa le barricate di Napoli?"

"Ma allora ti stanno bene i Borboni!" scattò il canonico.

"Per niente affatto! Mettiti in testa che io non nutro sentimenti reazionari e aborro la violenza e il nuovo tentativo di restaurazione che è in atto."

"E allora devi ammettere che è necessario che le larve, i fantasmi di tempi ormai andati tornino nel regno delle ombre e non pensino più di poter governare gli stati!" fece spazientito il canonico.

"Ma anche Vittorio Emanuele è un re e la sua dinastia..."

"Un re che ha conservato lo statuto, l'unico principe italiano che ha mostrato coerenza con le nuove idee e coraggio nel sostenerle!"

"Ma cerchiamo di rimanere con i piedi sulla terra –riprese l'avvocato– per divenire suoi sudditi bisognerebbe arrivare all'unificazione dell'Italia; te la immagini? così lunga com'è questa penisola, diversa da regione a regione, divisa per secoli in tanti stati con leggi, abitudini e perfino linguaggi tanto differenti! Comunque mi sembra la strada più lunga e tortuosa perché il popolo raggiunga quel benessere che invece i movimenti politici che a tutto antepongono l'idea unitaria sbandierano come un frutto maturo, ormai solo da cogliere, (naturalmente subito dopo la vittoria della loro parte)!"

"La saggia amministrazione, il benessere della società, e io aggiungo finalmente la pari dignità giuridica e l'uguaglianza politica dei cittadini –ribatté il canonico, che allora sembrò al fratello più agguerrito e pronto alla dialettica politica di quanto lui non credesse– non possono essere scissi da un'idea. Non si può ignorare il fermento che oggi pervade la mente e l'opera di tanti pensatori italiani e stranieri: non hai letto il Primato del Gioberti? non sai che anche un altro sacerdote, il Rosmini, in un'opera di recente pubblicazione propone riforme giuridiche e religiose addirittura in seno alla Chiesa? sto cercando in tutti i modi di procurami una copia di questo libro!"

L'avvocato voleva interrompere quel monologo, ma il canonico, mostrando un fervore e una convinzione ancora più piena continuò: "Ma, poi, perché andare tanto lontano col discorso? hai forse già dimenticato don Ottaviano? lui ci educava prima di tutto alla libertà di opinione, e non solo con le parole, ma con l'esempio: sai bene quante persecuzioni e angherie sopportò per le sue idee senza mai piegarsi. Non sono neppure due anni che è morto!"

Al nome del concittadino amato e rispettato da entrambi come un maestro, l'avvocato si sentì in difficoltà: come esprimere a suo fratello, nel corso di un dialogo che sembrava dovesse ad ogni poco trasformarsi in lite, il suo basilare concetto dell'uso indispensabile del buonsenso nel difficile tentativo di conciliare le teorie con la concretezza dei fatti, soprattutto in un campo così vasto e complesso come quello del progresso e del benessere della collettività?

"Il ricordo di don Ottaviano è sacro anche per me! –rispose– Ma una cosa è teorizzare, altro è tradurre in realtà il pensiero. Occorrono gradualità e accortezza nel procedere..."

"Al contrario, i fatti dell'anno scorso dimostrano, come per la rivolta di Palermo, che con due giorni di insurrezione si può ottenere più che con due anni di petizioni e di manifestazioni pacifiche. Ormai è chiaro che gi italiani debbono fare da sé; e con la rivoluzione, se sarà necessario!"

"Si, certo –ammise l'avvocato– la rivolta di Milano contro gli austriaci, le repubbliche di Roma e di Venezia, sono esempi di popolo che fa da sé: 'Dio e Popolo', come dice Mazzini. Ma i risultati sono deludenti... quanti sacrifici, quanti morti! Come indursi a proseguire su questa strada?"

Il canonico, come se avesse voluto a sua volta esser persuasivo, moderò a quel punto il tono deciso delle parole e ammise che forse alcune riflessioni del fratello potevano esser giuste; ma aggiunse che un uomo non deve arrivare mai ad una attesa passiva degli eventi, perché quando questi si sono compiuti, non gli resta che adattarsi ad essi alla meno peggio, per quanto scomodi ed avversi siano.

"Bisogna esser ben consci, caro fratello –disse poi– che ogni cosa di questo mondo cambia nel tempo, anche se in modo impercettibile per la maggior parte degli uomini; ma chi ha una sensibilità fine, un intuito pronto, questo cambiamento lo avverte e allora non può e non deve star quieto; ma deve riflettere, partecipare e agire di conseguenza."

"Eh! Quante sarebbero allora le persone dotate di così elevato ingegno –esclamò l'avvocato– se possedessero doti tanto elette tutti quelli che si dicono seguaci delle idee liberali!"

"Ce ne sono, ce ne sono di queste persone più di quante tu voglia ammettere!" lo interruppe il canonico.

"A me, invece, sembra che i seguaci più accesi di ogni ideologia politica siano individui insicuri, senza il coraggio di affrontare le difficoltà della vita, che per nascondere anche a se stessi questa debolezza si costruiscono un mondo immaginario, rispondente alle personali concezioni di ordine, e di giustizia. Colorano questo mondo fittizio con le tinte più forti delle ideologie politiche del momento e poi ne divengono ferventi sostenitori!"

"Questa può anche essere una delle facce della verità –assentì il canonico– ma l'altra è che resta un dovere naturale, al quale nessuno si deve sottrarre, quello di mostrare dissenso e fare opposizione al cosiddetto potere legittimo quando è male esercitato. E se non c'è libertà di esprimere le proprie opinioni, se c'è la polizia che arresta e perseguita chi dissente, allora è giusto, anzi è doveroso ordire congiure, armarsi, preparare e fare la rivoluzione!"

"Io non credo che le rivoluzioni assecondino sempre il progresso umano –ribatté l'avvocato– Rivoluzione! Senza andare molto addietro nel tempo ne abbiamo un esempio in quella francese: vera, grande e vittoriosa, ma poi ci sono stati i giacobini, la ghigliottina, le guerre, e quindi Napoleone, poi... la restaurazione e di nuovo i re! "

"Da allora è passato mezzo secolo, ti pare poco?" disse il canonico con sufficienza.

"E non è cambiato quasi niente! –ribadì l'avvocato– E se da ultimo in Francia è tornata la repubblica, il suo presidente manda truppe francesi ad abbattere la repubblica romana! Vedrai se non farà onore al suo cognome! E sì che era un rivoluzionario autentico! In proposito, ho saputo proprio di recente che nel '31 il Bonaparte in fuga negli Stati Pontifici, braccato dalla polizia nella campagna viterbese perché andava fomentando l'insurrezione, trovò scampo solo perché a Viterbo il conte Caprini lo tenne nascosto nel suo palazzo. Più rivoluzionario di così ? eppure ora...".

Il canonico questa volta non gli rispose subito, parve astrarsi alquanto, come per riflettere su un pensiero che andava rivedendo o formulando e organizzando in quel momento. L'avvocato non insistette, attese che suo fratello parlasse.

"Il caso della repubblica romana che tu, per due volte, hai ricordato –riprese dopo quella pausa il canonico– è bene chiarirlo, è un caso assolutamente particolare, anzi unico: Roma è la culla della cristianità, è la sede della Cattedra di Pietro e dei suoi successori. Tale deve rimanere, non si tocca. Il presidente Bonaparte, rivoluzionario autentico come tu dici, restituendo Roma al Papa ha dato la prova che anche un rivoluzionario può ben valutare le singole circostanze nelle quali si trova a operare e che la repubblica non è per sua natura sempre giacobina". Poi, come avesse deciso di avviare a conclusione quel colloquio: "Fratello! –proruppe con rinnovata energia– è ora di dire basta agli stati composti da plebi diseredate governate da despoti! Basta con la miseria squallida di intere popolazioni. So ben io dal confessionale a quali turpitudini, a quanti peccati inducano la miseria e l'ingiustizia!"

"So anch'io..." –tentò di interromperlo l'avvocato, il quale avrebbe voluto dirgli che la sua parte di mondo l'aveva ben conosciuta anche lui e tutti i giorni l'aveva sotto gli occhi nelle aule dei tribunali, dove, accanto al desiderio di giustizia vengono allo scoperto l'egoismo, l'odio degli uomini e talora anche la somma ingiustizia– ma non insisté. L'apetto ispirato di suo fratello glielo fece vedere sul pulpito, infervorato in un'omelia.

Il canonico, come se avesse letto nel suo pensiero e volesse tentare di trascinarlo nella sua avventura, continuò con maggior calore: "In quale altro modo, se non con la rivolta, ci si può opporre ai Borboni? sarà proprio il vento della rivoluzione a spiegare e spingere tutte nello stesso senso le vele delle barche disorientate dei vari movimenti politici che ora seguono rotte incerte; mosse dall'intima forza del pensiero liberale le tessere sconnesse del mosaico politico nazionale torneranno all'istante al loro posto a configurar l'Italia una, libera e indipendente! In noi la fede è salda. L'idea liberale è una fiamma che non si spegne! Che sarebbe poi la storia dell'umanità senza i frutti delle passioni ardenti e nobili, senza l'impulso che riceve da questi sentimenti?" Si alzò dal seggiolone, mosse con l'attizzatoio le braci nel camino, dove la legna si era ormai consumata, e come per scuotere l'amor proprio di suo fratello anche col gesto, aggiunse: "Non voglio dire con questo, mio caro, che nel tuo animo sia spento il fuoco vitale del sentimento, ma sarò franco, non vi scorgo la fiamma!" Dai suoi occhi traluceva un sentimento profondo e genuino.

"Io non trovo da gettare nel mio fuoco legna che sprigioni quella fiamma vivida e duratura che vorrei! S'è fatto tardi, va' a riposare, domattina devi partire presto; buonanotte!" con-chiuse l'avvocato.

"Buonanotte!" rispose il canonico e s'avviò verso la sua camera.

L'avvocato era riuscito a parlare col fratello con un grande sforzo di volontà; ma dopo che quello era andato via dette sfogo al suo malumore. Passeggiando su e giù nella sala davanti al camino sentì l'ansia esplodergli in petto e trasformarsi in angoscia. Lo opprimeva un turbamento profondo, un indefinito disagio interiore, non solo per i pericoli che immaginava gravi e imminenti e per il rapido succedersi dei fatti in quelle ultime ore: egli avvertiva, seppure indistintamente, che quel suo travaglio aveva una più vasta e complessa origine. Alcuni fondali dello scenario della sua vita stavano bruscamente cambiando, alcune aree di sereno e di quiete venivano scosse e turbate. Ne era un chiaro esempio quell'apparirgli improvviso di suo fratello nelle vesti di rivoluzionario, quel suo voler enfatizzare d'un tratto l'immagine e il significato di eventi familiari, che sembravano certi e assodati da tempo, fino a dare ad essi i colori di un'epopea patriottica. Gli stessi ricordi dei fatti del '21, che s'erano andati sbiadendo in quegli ultimi anni, i primi per lui di lavoro, di amore, di impegni sociali e di programmi dell'età adulta, quei ricordi ora, sotto l'impeto di quelle emozioni improvvise, balzavano alla memoria con una vivezza insolita provocando una sorta di sdoppiamento delle sue percezioni; un sentire il presente come tale e come già vissuto; un senso di irrealtà, come quando al risveglio i particolari di un incubo, resistendo alla percezione del reale prima di dissolversi, incutono ancora terrore. Qui però il procedimento era inverso ed erano realtà attuali e pensieri lucidi a evocare paure ed emozioni antiche. Assieme a tanti altri ricordi del mondo infantile, con i quali erano ormai confuse, le immagini di quegli sbirri austriaci emergevano nella memoria come ombre minacciose, pur se frammiste a quelle miti, ma allora cariche di tanta suggestione, che proiettava la "lanterna magica" durante i suoi giochi.

Quando l'impeto dell'emozione e dell'ira sbollirono un poco, l'avvocato si sentì costretto a più concreti pensieri e ad azioni tese a parare i guai; e se li andava enumerando questi come per riunirli in capitoli da vagliare, poi, uno per uno: il fratello fuggiasco; lo spavento della madre vecchia e malata e della sposa, così mite e gentile, quando avrebbero saputo tutto; gli sbirri a perquisirgli la casa... "Già! E quelle carte dei carbonari, che sono ancora lì, sotto il gradino!" Esclamò d'un tratto portandosi la mano alla fronte e alzando il tono del suo soliloquio. Senza por tempo in mezzo si precipitò per le scale, cercò il gradino, tolse via il fascicolo dal nascondiglio dove aveva dormito per quasi trent'anni, ravvivò le braci nel camino e ve lo gettò. Le vecchie carte si annerirono, fumigarono e da ultimo arsero con una fiammata. "Ecco la fiamma!" sogghignò con amarezza. Poi, mentre la casa era immersa nel silenzio gettò nel pozzo, che già conosciamo, fucili e pistole di casa (che, dato il precedente, chiameremo di seconda generazione, visto che dopo quasi un secolo, durante l'occupazione nazista dell'Italia, ve ne fu una terza a subire la stessa sorte!). L'avvocato tentò poi di immaginare nei particolari l'arrivo della polizia e le fasi del futuro giudizio: come sarà formulata l'imputazione? "perché portava i baffi alla Vittorio Emanuele?" e chi lo dice che erano proprio di quella forma? suo fratello non poteva aver avuto un eczema del labbro per cui non s'era potuto radere? Ben sapeva però che il controllo della forma delle barbe e la foggia delle capigliature faceva parte degli affari di stato del Borbone. Dopo i fatti del quarantotto lui aveva visto nei tribunali (e lo aveva ben riferito in casa!) condannare e menare in prigione senza pietà fior di galantuomini per motivi politici altrettanto banali.

Era immerso in questi pensieri quando udì nella strada silenziosa risuonare sul selciato gli zoccoli di un cavallo e il fratello scendere dalla sua stanza. Lo raggiunse sul portone, lo aiutò a sistemare le bisacce ai lati della sella, lo abbracciò raccomandandogli la massima cautela, ché era inutile ripetergli quale dolore avrebbero avuto tutti e specialmente la madre se a quella partenza avessero fatto seguito altri guai.

Due giorni dopo, puntuali, arrivarono i gendarmi con il mandato d'arresto per il canonico e l'ordine di perquisire la casa. L'avvocato disse che il fratello era partito per gli esercizi spirituali; mostrò di cadere dalle nuvole udendo quelle novità; avanzò l'ipotesi che potesse esservi qualche errore in quella procedura, perché era certo che suo fratello non aveva commesso reati; comunque, potevano ben accomodarsi per la perquisizione. Al termine di essa, che naturalmente fu del tutto infruttuosa, l'avvocato chiese con garbo al comandante se poteva sapere di quale reato fosse sospettato suo fratello. Con un moto di interiore ironia s'aspettava che spuntassero fuori dal mandato i baffoni del re piemontese, ma gli sbirri gli dissero secco che lui non solo non poteva fare domande ma che, in mancanza del fratello, doveva seguirli e in stato di arresto a Sulmona!

La prigionia dell'avvocato durò solo poche ore, sia per la manifesta infondatezza dell'atto arbitrario di quegli sgherri, ai quali doveva esser parso disonorevole tornare dai loro capi a mani vuote dopo una battuta di caccia tra i monti, sia perché il magistrato di Sulmona che lo conosceva ne ordinò seduta stante il rilascio. Il canonico, invece, accolto dai parenti di Popoli, fu subito nascosto in una casipola che era in una loro proprietà presso "Le Svolte", tortuoso tratto della strada che da Popoli conduce a Navelli e ad Aquila, perché in paese avrebbe dato nell'occhio e sarebbe stato pericoloso per sé e per gli altri. In quel rifugio, nella solitudine, privo di ogni conforto, rifornito solo di vettovaglie, il canonico ebbe modo di compiere con tutto il raccoglimento necessario i suoi esercizi spirituali e le sue meditazioni. Sul tenore delle quali non abbiamo elementi per formulare ipotesi. Quando tornò a casa, dopo un'assenza che si era protratta molto più di quanto non comportasse la durata degli esercizi spirituali (a causa, disse, di una malattia che stava per condurlo al Creatore) parve al fratello ben più prudente che per l'innanzi.

* * *

Col passare del tempo gli strascichi del '48 si andarono esaurendo anche in casa dell'avvocato, sicché le nozze con Giuditta furono celebrate nel dicembre del '49, solo con lieve ritardo rispetto alla data prevista. Dopo un anno nacque il primo figlio; poi la prole crebbe al ritmo di un figlio ogni due anni circa e per tre lustri non vi furono eventi di rilievo, specie politico, a turbare la quiete della vita familiare. Essa poté svolgersi così, con i ritmi ordinati che all'avvocato erano congeniali: erano le campane del mattutino a destare Francesca, la cameriera, che poi con il caffé svegliava i padroni; ma già da tempo i garzoni erano andati a far legna nel bosco, i vaccari mungevano le vacche nelle stalle al lume delle lucerne a olio e il più piccolo di essi conduceva gli animali al pascolo col suo bucco a tracolla, nel quale era la sua razione quotidiana di pane e ricotta. Una sorta di azienda agricola e zootecnica, infatti, faceva solitamente parte del patrimonio familiare della borghesia locale in quell'epoca e rappresentava una buona fonte di reddito, oltre a soddisfare i consumi alimentari della famiglia. Poiché il marito era sempre più preso dall'attività professionale, Giuditta, con consapevole atto di amore, aveva man mano abbandonato il ricamo e la musica, suoi giovanili passatempi e aveva assunto la direzione di tutto l'andamento familiare. Un'ala della vasta casa era destinata alla gestione di questa sorta di azienda: v'era il granaio, una grande dispensa, un vano con i telai dove per lunghi periodi dell'anno le tessitrici confezionavano il panno destinato a vari usi domestici e al pianterreno la cantina, la legnaia, il locale di deposito di attrezzi e altri magazzini. Il resto della casa era distribuito su due piani: in quello superiore erano i salotti, la biblioteca, la cappellina e la camera dello zio prete o Pepè come i piccoli chiamavano il canonico; al piano inferiore era l'appartamento che abitava la famiglia dell'avvocato. Centro di questo appartamento e cuore di tutta la casa era un grande vano, con il camino che conosciamo perché v'erano state bruciate le carte dei carbonari, nel quale si aprivano le porte della sala da pranzo e dello studio. Ad esclusione del piano superiore, il cui accesso era loro vietato, tutto il resto della casa, i cortili e i giardini che la circondavano erano il regno della nidiata di ragazzi. Maschietti e femminucce, non appena terminate le severe lezioni che a seconda dell'età gli impartiva lo zio prete –dai primi rudimenti del leggere e dello scrivere alle prime traduzioni latine– sciamavano e si rincorrevano ovunque, organizzando i loro semplici giochi; cercando di ampliare il margine tra permessi e divieti di un'educazione che seguiva severi principi anche di ordine formale e di austera economia. La famiglia, ad esempio mangiava di rado caciocavalli, pur producendone grandi quantità, perché era un formaggio tipico del posto che aveva uno smercio vantaggioso e doveva per l'appunto esser serbato per la vendita. Sicché il canonico insinuava che se ne mangiasse solo quando un topo, rodendo il cordone col quale in coppie erano appesi a cavallo delle pertiche, li faceva cadere in terra. Aveva composto, perciò, uno scherzoso oremus per il signor topo, che recitava quando quel formaggio veniva servito in tavola. D'altro canto la carità era sentita come un dovere ed ogni sabato a mezzogiorno Donna Giuditta, accompagnata da una domestica, serviva personalmente una scodella di minestra calda ai poveri che nell'androne del palazzo, seduti su un lungo sedile di pietra, attendevano quel ristoro. La capacità di condurre un regime di vita parsimonioso, senza che ciò costituisse una sofferenza o generasse un senso di frustrazione, era considerata dall'avvocato e da sua moglie una garanzia nei confronti degli imprevisti della sorte, così come oggi può esserlo una polizza di assicurazione contro gli infortuni. Inoltre essi consideravano che ciò fosse indispensabile per dare ai giovani il senso e la misura dei valori autentici della vita umana, che ritenevano essere quelli dello spirito e della cultura, in una parola quelli della civiltà. Per conseguire i benefici dei quali, invece, non si doveva essere avari nello spendere danaro. Sul filo di tale logica l'avvocato aveva una attenta cura di tutto quanto valesse a far progredire l'istruzione dei figli e a confermare il culto per i modi del vivere civile. Così i numerosi battesimi, gli onomastici dei padroni di casa ed altre ricorrenze familiari, erano occasione di ricevimenti per i quali si aprivano i salotti del secondo piano. Allora si ammannivano cibi ricercati, dolciumi e, accanto a quelli locali e tradizionali per la particolare circostanza, v'erano più raffinate leccornie, confetti di Sulmona e vini pregiati che l'avvocato aveva ricevuto in dono o aveva acquistato nelle città dove si era recato per i suoi impegni professionali. Particolare cura lui poneva, poi, nell'inserire nella lista degli invitati qualche nome cui desse lustro una superiore cultura o un particolare talento artistico, riservando a tale personaggio il posto di maggior riguardo a tavola e in salotto. A causa di tali criteri organizzativi, però, queste feste non riuscivano particolarmente briose e non ottenevano la risonanza nella cittadina di quelle bandite dagli altri signori. Naturalmente questo era motivo di dispiacere per Donna Giuditta, dal quale si riprendeva quando era invitata a partecipare con il marito ai ricevimenti delle famiglie nobili o benestanti di Sulmona e degli altri paesi del circondario. Allora s'informava dei cambiamenti della moda e rinnovava il suo guardaroba, mentre l'avvocato pensava alle discussioni e agli scambi di vedute che avrebbe avuto con gli eventuali interlocutori, per portare il discorso su quegli argomenti culturali e professionali che a lui stavano tanto a cuore e, nello stesso tempo, allontanarlo dalle congetture politiche salottiere, di cui non faceva gran conto.

Anche l'unità d'Italia che nel frattempo si era venuta realizzando non modificò questo regime di vita familiare, e, almeno nei primi tempi e nella pratica quotidiana, per l'avvocato si risolse solo nel cambio dell'emblema sui fogli di carta da bollo, dove lo scudo sabaudo aveva preso il posto dei tre gigli borbonici. Pochi giorni prima del passaggio dell'esercito piemontese in quelle contrade, però, essendo corsa voce di una sconfitta di Garibaldi durante la battaglia del Volturno, la plebe reazionaria si sollevò ed inscenò una tumultuosa manifestazione. L'avvocato, avendo avuto da un suo cliente una informazione confidenziale secondo la quale Paparuolo e Chiavone intendevano provocare una sommossa anche a Pescocostanzo per farla pagar cara ai liberali, come stava accadendo a Isernia, provvide a passare tempestivamente l'informazione agli interessati. Poche ore dopo, infatti, un gruppo di facinorosi percorse il paese al grido di "Viva Francesco secondo!" tra il fracasso di tamburi e di barattoli percossi. Arrivati sotto il palazzo dell'avvocato, costoro cominciarono a chiamarlo: "Avvoca'... Avvoca'... Avvocatooo!... Viva Francesco secondo! Viva Franciscoooo!" intendendo così di ingiungergli un assenso ai loro evviva. L'avvocato, allora, dette ordine ai domestici di dar subito da bere a quegli scalmanati; poi, quando i boccali di vino cominciarono a circolare tra quella piccola folla, rispose da dietro i vetri di un balcone alle urla che lo chiamavano fuori con un pacato saluto, togliendosi due o tre volte la berretta che soleva portare in casa nei mesi freddi. Berretta che aumentava ancor più la sua straordinaria somiglianza col Duce dei Mille. Ma quegli individui non conoscevano l'effigie di Garibaldi e, paghi del saluto e più ancora del vino, andarono oltre brandendo un coltellaccio e rotolando una tinozza, perché dicevano di dover andare a "cacciare la panza" a Porcograsso, un obeso commerciante che aveva fama di essere liberale.

Quanto al canonico, se l'eco delle leggi siccardiane del '50 era giunta fioca e forse estranea alle sue orecchie, quattordici anni dopo, il Sillabo di Pio IX scosse ben più vivamente l'animo suo con la condanna sistematica degli "errori del nostro tempo" (tra essi v'era la libertà di coscienza, la libertà di dialogo e il tentativo di conciliazione del Papa con il "progresso, il liberalesimo e la civiltà moderna"). Quel brusco richiamo alla piena obbedienza al Capo della Chiesa e al dettato della religione, agì sul suo temperamento emotivo provocando un radicale cambiamento di umore, infondendogli una carica ascetica che lo indusse a iniziare un regime di vita austero, di preghiera e di penitenza: indossò allora un cilicio, fece quotidiano uso della disciplina, osservò lunghi e frequenti periodi di digiuno.

Intanto, ai primi bagliori del nuovo regno, seguivano ombre e delusioni: tasse, leggi nuove e confuse, una improvvisa diffusione di carta moneta falsa, il brigantaggio, la mancata presa di coscienza da parte del nuovo governo dei gravi problemi e dei mali sociali del Regno di Napoli, e altri cattivi auspici per il futuro della giovane nazione. Non mancò allora tra i conoscenti del canonico chi facesse carico anche a lui di aver contribuito per la sua parte all'avvento di ogni reale o paventata sventura. Ciò, se non valse ad indurgli un senso di colpa, per l'assoluta infondatezza delle accuse, lo spinse però a schierarsi decisamente contro tutto ciò che in quegli anni si andava affermando che avesse carattere laico ed anticlericale.

I rapporti tra il canonico e l'avvocato divennero quindi nuovamente tesi a seguito delle leggi di esproprio dei beni ecclesiastici e della vendita di essi ai cittadini; leggi promulgate nel 1866 con lo scopo dichiarato (e poi regolarmente fallito) di ristorare l'Erario e promuovere l'agricoltura intensiva. Nel corso di tali operazioni, che nel linguaggio comune furono dette di "incameramento e devoluzione" dei beni ecclesiastici, l'avvocato intendeva acquistare almeno quei fondi che ab antiquo i suoi antenati avevano legato a Enti religiosi. Il canonico, come ebbe sentore di tale proposito, fu subito di parere fermamente contrario. L'avvocato con la "ricompra" di tali fondi, come soleva dire, intendeva fare solo opera rispettosa di una buona tradizione di conservazione e custodia della res familiaris, evitando che antiche proprietà della famiglia fossero acquistate da altri. Nello stesso tempo, con senso di realismo, avrebbe provveduto agli interessi della sua numerosa prole. Il canonico non intendeva ragioni e si opponeva con tutte le sue forze e con l'autorità morale del suo abito affinché la famiglia non fosse pertecipe in alcun modo dello spirito anticlericale dei tempi. Tanto più la sua opposizione fu accesa e strenua quando seppe che sugli acquirenti di quei beni avrebbe potuto gravare addirittura la scomunica papale.

Chi più di tutti ebbe a soffrire di tale scontro fu naturalmente Giuditta, che aveva in petto il contrasto tra gli scrupoli che v'insinuavano le parole del cognato e le buone ragioni del marito. Le terre furono comunque acquistate dall'avvocato e quando, qualche tempo dopo, si seppe che la scomunica poteva esser tolta col versamento di un obolo alla Santa Sede, a pagarlo, per la salvezza dell'anima dei suoi familiari, fu il canonico.

Perché si compisse il ciclo risorgimentale, ormai non mancava che la presa di Roma. Questo evento, però, non ebbe una concreta influenza nei rapporti familiari. Sebbene il canonico lo biasimasse (anche con parole provocatorie nei confronti del fratello) quale ultima e conclusiva catastrofe dei suoi tempi, l'avvocato a tale evento non mostrava di interessarsi; e contro le schiere di angeli armati di spade infuocate messe in campo dal canonico a difesa di Roma e del Papa, non opponeva milizie avverse di sorta. Ma qualche volta rifletteva tra sé che le cose poi erano andate in gran parte per loro conto lasciando come al solito tutti insoddisfatti, sia quelli che all'unità d'Italia anteponevano un sostanziale progresso delle condizioni di vita delle popolazioni meridionali, sia quelli che, come suo fratello, a ogni altra considerazione avevano anteposto l'idea unitaria.

* * *

Quasi dieci anni dopo, la morte prematura del fratello amatissimo doveva segnare una svolta nelle abitudini e nello stile di vita di del canonico. Accanto all'immenso dolore per quella perdita egli aveva sentito subito un forte impegno morale ad aiutare la cognata nella guida della numerosa famiglia, ormai orfana del padre. Solo i primi due figli avevano conseguito la laurea e muovevano i primi incerti passi delle loro carriere; gli altri erano adolescenti o addirittura bambini. Col suo sprito lo spirito, acuto e vigile nonostante l'età avanzata, il canonico capì che quell'impegno avrebbe provocato il sopraggiungere e forse l'incalzare nella sua vita di realtà nuove, per lui inconsuete, e dapprima ne temette l'urto. Il suo animo era temprato dalle illusioni e delusioni dei tempi andati; da quei conflitti interiori era maturata esperienza, una particolare esperienza, però, non di fatti e di opere, ma astratta, perché s'era svolta nello spazio apparentemente vuoto che circonda i fatti e le opere; nello spazio occupato dalle ideologie e dalla critica, talora dai tentativi di materializzare delle speranze. Era soprattutto in quel campo che la mente si era applicata in letture, studi e polemiche di contrappunto agli eventi sociali e, da ultimo, in profonde meditazioni ascetiche. Ora, invece, interessandosi all'istruzione dei nipoti più piccoli, al bilancio familiare, all'amministrazione del patrimonio, cose alle quali aveva sempre provveduto anche per lui ( e con quanta saggezza!) il fratello, si rendeva conto che stava cambiando campo; che da allora in poi si sarebbe dovuto impegnare a fondo nel concreto e nel positivo.

Gli si svelò, così, un mondo nuovo; ebbe differenti emozioni, altre ansie; ma assieme ad esse, nuovi concetti da penetrare e nuove idee da maturare e sentì risorgere nell' animo suo un'antica passione: quella della partecipazione attiva agli eventi innovatori della vita. Passione che la carica emotiva insita nel tumultuoso svolgersi degli eventi nei lustri trascorsi aveva soverchiato, ma non spenta.

La sua attenzione si volgeva allora con sorprendente spontaneità a quanto, forse per la prima volta, sentiva con certezza vero ed effettuale, progresso concreto dell'umanità. E in più occasioni si trovò a pensare che ciò era quel che.immaginava e sopra ogni cosa desiderava suo fratello, ciò per cui avrebbe gioito, per cui si sarebbe entusiasmato ed avrebbe lottato a viso aperto. Gli sembrava che questo progresso, spinto dalle invenzioni e dalle scoperte scientifiche di quegli anni, avanzasse veloce, come mai per l'innanzi, sincrono col crescere ed il progredire negli studi dei giovani nipoti. All'ultimo di essi, che studiava medicina a Napoli, commissionava frequenti acquisti di libri che trattavano argomenti scientifici e, quando tornava in paese per le vacanze, chiedeva minute informazioni sull'oggetto dei suoi studi, sulle novità nel campo della medicina che, dopo le scoperte di Koch e di Pasteur e i progressi continui della batteriologia, veniva rinnovata nelle sue concezioni dalle fondamenta. Quale sarebbe stato il destino dei tisici ora che si conosceva la causa principale della malattia? la grande industria che s'andava sempre più espandendo, come avrebbe modificato la società? S'interessò tanto alla diffusione del vapore che il nipote dovette condurlo, ottuagenario, a fare un breve viaggio in treno e volle avere notizie dettagliate delle prime automobili che chiamava anche lui carrozze senza cavalli.

Il nipote, ormai medico, che a lui era particolarmente affezionato, era incuriosito da un fatto: lo zio, quando aveva avuto sufficienti notizie delle nuove scoperte, così come era accaduto in occasione di quel suo unico viaggio in treno, non mostrava lo stupore, né l'incredulità, se non addirittura l'avversione, che costantemente in tali situazioni mostravano gli anziani. Un giorno volle chiedergli quale fosse il motivo di quella apparente contraddizione tra la grande curiosità e ansia che aveva nel voler apprendere ogni novità ed il modo tiepido con cui la commentava, e solo se gli si chiedevano esplicitamente le sue impressioni. Glielo disse una sera andando a salutarlo nella sua stanza, di dove il canonico ormai usciva di rado e dove il nipote era sempre festosamente accolto. Lo zio era seduto nella sua poltrona e recitava il rosario non riuscendo più a leggere alla luce fioca del lume a petrolio. Alla domanda del nipote intrecciò la corona nelle dita scarne di vecchio e rispose con ritrosia, come chi teme di esser frainteso nel rivelare un suo intimo pensiero: "Il Signore ha voluto che io avessi una vita lunga e che giungessi addirittura a vivere l'alba del nuovo secolo; credo perciò di poter avere una sorta di intuizione sul divenire dell'umanità. Questi progressi della scienza, che sono il risultato di uno sforzo estremo di analisi e di sintesi, in un circuito superiore di sentimenti e di pensieri pur sempre umani e terreni, condurranno ad un lontano ma affascinante obiettivo: quello della Grande Armonia. Di essa l'uomo non ha saputo concepire altra immagine che quella radiosa di Dio. Tra non molto, figliolo, io potrò averne certezza".

BENVENUTO,... DECIMO!

 

"Che adesso, per la venuta del Decimo Reggimento dei Granatieri, non si faccia il bis dell'arrivo a Pescocostanzo del generale Bava!" blaterava Cicco Tòmolo scendendo le scale del Municipio. Lui, in Consiglio, l'aveva cantato chiaro e tondo al Sindaco: per il paese, posto in cima alle montagne, malridotto dall'incuria delle vecchie amministrazioni, l'arrivo di forestieri –e di un personaggio importante come il generale Bava, poi!– doveva essere considerato una fortuna; avrebbe potuto rappresentare davvero la manna piovuta dal cielo. C'era bisogno di tante cose! Occorreva forse parlarne ancora? l'acquedotto, la bonifica della prateria... E invece!

Poi Cicco Tòmolo, con aria di finta rassegnazione, che avrebbe dovuto suscitare un moto rassicurante di solidarietà da parte di quelli che gli erano intorno, alzando il tono di voce esclamava: "Vabbe' che in paese non ci sta rimanendo più nessuno; tutti in America, tutti in America se ne vanno; ma noi, noi ci stiamo ancora!"

"E si dice che dopo un po' incominciano a mandare soldi alle mogli, perché quando tornano dall'America vogliono essere tutti proprietari di casa e di terre!" commentò Mingo Lupesce, al quale regolarmente sfuggiva il senso recondito dei discorsi del capo del suo partito.

"Tutti proprietari! –gli si rivolse acido Cicco– e i vaccari, i garzoni per arare la terra dove li andremo a prendere? già prima dell'emigrazione se ne trovavano pochi, ché nessuno vuole far più questo lavoro; di questo passo, tra qualche anno, non se ne troverà più nessuno; non si riuscirà a far arare più neppure un tòmolo di terra!"

Schioppetta, un buontempone che campava alla giornata, bighellonando nella piazza passò accanto al capannello di consiglieri e di curiosi che si andava raccogliendo intorno a Cicco Tòmolo man mano che uscivano dal Municipio; udite quelle parole, intonò a mezza voce:

"E la moglie dell'ammericano

va alla chiesa con sette sottane,

s'inginocchia e prega Dio:

manda quattrini marito mio,

che i quattrini c'hai già mandato

l'ho frusciati coll'innammoratooo!"

"Beato lui che non ha pensieri –commentò Cicco– come si dice? Tre so' li putiende: lu papa, lu re e chi non tiene niende!"

Per ultimo uscì dal Municipio il Segretario comunale, che chiuse a chiave il portone. "Lavoratore e preciso, il nuovo segretario –commentò Mingo Lupesce– così mi piacerebbe avere un commesso nel mio negozio!"

"Vedremo, vedremo se non è solo 'fruscìo di scopa nuova' e poi col tempo..." ribatté Cicco Tòmolo accendendo un mezzo sigaro, con l'aria di chi, essendo uomo di mondo, non si lascia ingannare dalle apparenze.

"Segretario, venite a bere un bicchiere di marsala con noi? Venite, venite con noi!" dissero delle voci dal crocchio.

"Grazie, grazie...No! Veramente io bevo solo durante i pasti e la vostra compagnia l'ho goduta fino ad ora. Devo andare a casa ad aiutare mia moglie perché ci stiamo sistemando nella nuova abitazione dopo il trasloco. Volevo solo domandare qui a Don Cicco, cos'è questa storia dell'arrivo del generale Bava che non si deve ripetere quando arriverà il Decimo Reggimento, come ha più volte detto in Consiglio. Volevo chiederlo al Sindaco, ma appena terminata la seduta, si è alzato ed è andato via per primo...."

"Eh, sì certo! Voi dovete conoscere un po' della storia, per così dire, del nostro paese; perché ora siete anche voi dei nostri. Anzi siete una delle autorità!" aggiunse Cicco con ironia mal celata che non sfuggì al Segretario. "Il fatto si è che anche nella passata Amministrazione noi eravamo in minoranza e poco o niente siamo riusciti a far fare di buono al vecchio sindaco; che poi era anche malato, tant'è vero che mò fa l'anno è morto –iniziò a dire Cicco Tòmolo con certa sua aria di sufficienza, con la quale di solito celava l'interesse che aveva a mostrare una completa padronanza delle faccende pubbliche–. Dunque il fatto del generale è questo: Il generale Bava, che come sapete è un generale di corpo d'armata, un'eccellenza, un pezzo grosso anche nella politica, tre anni fa, andando alle grandi manovre che si facevano giù nell'Italia meridionale e alle quali assisteva anche il Re, passava per il Piano delle Cinque Miglia. Quelli del suo stato maggiore avevano deciso che facesse tappa e pernottasse qui a Pesco. Infatti una decina di giorni prima del passaggio del generale erano venuti degli ufficiali per scegliergli l'alloggio e predisporre gli altri particolari di questa tappa. L'alloggio era stato fissato nella casa di Tirlittappo, che però non sta in una via principale...."

"Punto indietro, punto indietro...–lo interruppe Mingo Lupesce– Devi anche dire al segretario perché si dovette ricorrere alla casa di Tirlittappo, con tanti bei palazzi che ci sono in paese, sennò il Segretario si fa una cattiva idea di tutti quanti noi!"

"Ecco, beh...stavo dicendo –riprese Cicco Tòmolo alquanto irritato da questa interruzione– la casa di Tirlittappo, che è pure una bella palazzina, ma giust'appunto, non si può mettere a paragone con nessuno dei palazzi dei signori che stanno in paese. Però in otto giorni non si faceva in tempo a preparare l'alloggio in uno di questi palazzi, perché di questi signori, chi non c'era, chi non voleva estranei in casa, chi non faceva in tempo a preparare il ricevimento al generale....E tutto questo perché, prima, le autorità venivano sempre ospitate nella casa di Don Giovanni...... che nel suo palazzo ci ha un quartiere proprio per gli ospiti di riguardo, sempre pronto. Lui ci tiene a trattarli a modo; anche per il nome della famiglia, che è di gran signori. Solo che da un po' di tempo a Don Giovanni ...qualche rotelluccia in testa gli gira storto...Insomma, specie se stura qualche bottiglia di più di un certo vino suo di Puglia...allora vattelo a riacchiappare dietro ai suoi grilli e ghiribizzi! E di bottiglie negli ultimi tempi ne stura sempre di più!..."

"Come quella volta che si dice che aveva fatto preparare il fuoco per arrostire il figlio..." –interruppe di nuovo Mingo– ma Cicco gli dette sulla voce: "Basta, rimaniamo al fatto, sennò il Segretario non va più ad aiutare la moglie! Insomma, proprio pochi giorni prima dell'arrivo del generale, Don Giovanni aveva ospitato l'onorevole Mansueti che faceva il giro del suo collegio per le elezioni. Dopo una giornata di discorsi, di incontri con gli elettori, di strette di mano, di promesse e chiacchiere, come fanno i deputati in tempo di elezioni, e dopo un gran ricevimento e cena a casa di Don Giovanni con parecchi amici e tanti brindisi, l'onorevole se ne va a dormire. Ma s'era appena messo a letto e girato di quarto per pigliare sonno che sente dietro la porta una musica, come fosse una serenata. L'onorevole si alza, si rimette i calzoni e apre la porta. Chi vede? Don Giovanni che con alcuni degli altri invitati faceva musica con la cassetta armonica e gli augurava buon riposo. L'onorevole ringrazia di tanta cortesia: "Anche la serenata, come fossi una sposa!...Che ospitalità completa di tutto. Grazie, grazie!" Li congeda e se ne torna a letto, ché stava proprio stracco. Ma aveva appena preso sonno che la musica ricomincia e l'onorevole, che aveva capito che Don Giovanni era brillo, si alza di nuovo e cerca di calmarlo, ringraziando ancora e dicendo che lo scherzo era di gusto, ma che lui aveva bisogno assolutamente di dormire, perché la mattina dopo doveva alzarsi presto e proseguire il giro del suo collegio. Sembrava che Don Giovanni si fosse fatto capace e se ne fosse andato a letto pure lui; ma l'onorevole stava al primo sonno quando la musica e il baccano dietro la porta ricominciano più forti di prima. Il povero onorevole riapre la porta della stanza e cerca di far capire a Don Giovanni e agli altri che lui si stava a sentir male; che per favore dovevano proprio smettere...Ma non fa a tempo a dire due parole che Don Giovanni passa dallo scherzo e l'allegria all'incazzatura e alle brutte e comincia con le male parole e le minacce all'onorevole: 'Imbroglione, bugiardo, ladro, lazzarone! Fuori, fuori di casa mia!...' Insomma, in poche parole lo caccia fuori di casa! E se non ci avesse pensato Lurito, il fattore di Don Giovanni, il quale, vista la mala parata per l'onorevole, aveva già fatto avvisare a casa sua –ché abita proprio di fronte al palazzo di Don Giovanni– che preparassero un letto, perché poteva servire per l'onorevole, quello passava la notte in mezzo alla strada; ed era primavera e faceva ancora freddo. Ecco perché per il generale, all'ultimo momento, si dovette ricorrere alla casa di Tirlittappo".

"Va bene, va bene, fu scelta la casa di questo signor Tirli...comesichiamalui, –disse il Segretario spazientito– ma all'arrivo del generale che cosa é successo?"

"Niente, proprio niente –riprese Cicco con aria sarcastica e misteriosa– perché a riceverlo non c'era nessuno! Né sindaco, né giunta, né popolazione! Le staffette a cavallo che precedevano il generale, quando arrivano in paese per annunciare che la carrozza del generale ormai è qui, che è arrivata all'Albero di Cocco, non vedono nessuno in giro e credono addirittura di non essere ancora arrivate alla piazza principale; vanno avanti e così escono dall'altro capo del paese. Allora s'accorgono che il paese lo avevano già oltrepassato, tornano indietro e capiscono che la piazza del paese è questa, che quello è il Municipio e capiscono pure che a riceverli non c'è nessuno! Si guardano attorno e vedono solo un uomo sdraiato su quel gradino di pietra che sta lì; era Nardone che prendeva il sole e sonnecchiava nella piazza deserta, come stesse a letto a casa sua. Le staffette allora gli si avvicinano e quello quando sente i cavalli che gli scalpitano vicino si sveglia e s'alza in piedi. Nardone è un pezzo d'uomo che ha fatto il portinaio a Napoli e va sempre in giro con una camiciola turchina sulla quale ha appuntato tante medaglie e medagliette, di quelle che di solito i preti dànno in chiesa ai ragazzini e di quelle prese per ricordo nei santuari –Nardone accompagna sempre i paesani che vanno nei pellegrinaggi!– Immaginiamoci quello che dovettero pensare le staffette piemontesi vedendo Nardone; anche perché le sorprese del suo strano modo di vestire non erano finite. Presto, segretario, conoscerete anche voi questo nostro originale concittadino. Dunque le staffette gli chiedono se lui sa dove si trova il sindaco e quale è l'alloggio del generale. 'Dove sta adesso il sindaco non lo so –risponde Nardone– ma so quale è l'alloggio: è a casa di Tirlittappo (stavolta il segretario fece coro alla pronuncia di quel nome buffo) e se volete vi ci posso accompagnare!' Così dicendo raccoglie da una parte il suo cappello e se lo mette in testa. Adesso la maraviglia delle staffette è completa perché il cappello di Nardone è un'alta tuba alla quale lui, oltre ad appendere altre medaglie, ha appuntato intorno intorno lunghe penne di ogni sorta di uccello. In quel momento, con gran fracasso di ruote sul selciato e di scalpitare di cavalli, arriva in piazza la carrozza del generale col suo seguito. Un ufficiale si affaccia al finestrino della carrozza: Che è, che non è?... Le staffette spiegano di aver trovato solo quell'uomo che poteva indicare dov'era l'alloggio del generale..."

"Ho capito" interruppe a quel punto il segretario che aveva fretta.

"Eh, ma stia, stia a sentire la fine, ché ne vale la pena –disse Cicco che s'era infervorato nel racconto– Nardone a quel punto, dopo aver fatto un rispettoso inchino ai nuovi arrivati, si mette alla testa del corteo e si avvia verso la casa di Tirlittappo. Qualcuno di quei signori, allora, sembrandogli certo sconveniente che una carovana tanto nobile fosse preceduta e guidata da un individuo così comico, dice a Nardone di salire a cassetta accanto al postiglione e di guidarli da lì. Cosa che Nardone fece indicando la strada con larghi gesti delle mani, perché quei galantuomini non capivano bene la sua parlata abruzzese-napoletana, così come lui poco intendeva il loro piemontese. Si seppe, poi, che il generale aveva dato ordine alla sentinella messa di guardia al suo portone di impedire l'ingresso a qualunque cittadino che volesse andare a fargli visita, ad eccezione di quel buon uomo che con grande cortesia li aveva guidati, e che, poi, neppure aveva voluto accettare la moneta che un ufficiale gli voleva dare quando furono a destinazione. Avete capito, ora, segretario perché in Consiglio ho detto e ripetuto di non fare la stessa accoglienza fatta al generale, adesso, all'arrivo del Decimo Reggimento dei Granatieri che viene per il campo estivo e le manovre? Capisco che un reggimento di soldati non è cosa della stessa importanza dell'altra, ché un'occasione di quelle chi te la ridà più? Comunque è sempre una questione di decoro per il paese ed anche di conoscenza da parte del colonnello e degli altri ufficiali di questo posto isolato!"

Il segretario assicurò che per parte sua avrebbe compiuto scrupolosamente il suo dovere in ossequio alle disposizioni che avrebbe ricevuto dal Sindaco; salutò e se ne andò.

* * *

"Chi altro dispetto non te pò fa, innanzi a casa ti vié a cacà!" ripeteva con voce amara Peppe Farfuglia, il Sindaco, passeggiando su e giù per il suo ufficio. Quella mattina si era recato in Comune prima del solito. Dopo l'ultimo Consiglio la faccenda dell'accoglienza, del "benvenuto", come diceva Cicco Tòmolo, da dare al Reggimento che di lì a due giorni sarebbe arrivato in paese, gli aveva guastato la digestione e il sonno. Quel Tòmolo! La sua malignità gli pareva di toccarla con le mani! Con quale astuzia in Consiglio si trascinava dietro non solo il consenso di quei suoi quattro inetti caudatari, ma quasi riusciva a convincere della bontà delle sue proposte i dubbiosi e i disattenti della parte avversa; tale era l'ambiguità dei suoi discorsi!

Peppe Farfuglia si sentiva ora più che mai vittima di una congiura ordita contro di lui dal Tòmolo. "Il capo dell'opposizione –ringhiava a denti stretti quando la bile gli traboccava di corpo e pareva gli portasse alle labbra le parole di quel suo rimuginare– come lui definisce la combriccola che capeggia; come se stessimo in Parlamento con la sinistra e la destra!" E quanto s'era dato da fare il Tòmolo, "Don Cicco", come teneva a farsi chiamare, durante le elezioni per contendergli la carica di Sindaco! "Già, perché lui non solo ci avrebbe i fatti suoi da aggiustarsi facendo il sindaco, come io del resto ho i miei, ma è anche un ambizioso! Don Cicco qua, Don Cicco là!..." Se non avesse avuto la necessità di assicurare nelle aste comunali il buon pascolo della montagna di Mazzamora alle sue pecore, della carica di Sindaco lui se ne sarebbe altamente stropicciato; se ne sarebbe andato a caccia dalla mattina alla sera, che era la sua passione. Ora, poi, che aveva un nuovo fucile a due colpi! A che gli serviva, a lui, di mettersi in mostra? "Bene vixit qui bene latuit" diceva lo zio prete; il latino Peppe non lo aveva studiato, ma da quando lo zio gli aveva spiegato quel motto, non se l'era mai scordato, e più passava il tempo più aveva imparato a farsi quietamente i fatti suoi. Quella storia dei festeggiamenti per l'arrivo dei soldati era solo un dispetto che Cicco Tòmolo gli voleva fare! Che glie ne andava in tasca al Tòmolo da una buona o da una cattiva accoglienza fatta ai soldati? a lui interessava solo la terra. Un tòmolo qua, uno là, acquistati tutti per un tozzo di pane da chi aveva il chiappo in canna, come si dice in paese per esprimere l'urgenza di danaro. Lui sì che se la stava facendo una bella proprietà, altro che gli americani!

"Una bella accoglienza, un benvenuto al Reggimento, due parole dette bene dal Sindaco..." Ecco dov'era il veleno! Sapeva bene il Tòmolo che lui a parlare, specie in pubblico, non ci si trovava; era morto pure lo zio canonico, chi glielo avrebbe scritto ora un discorso?

"Chi ci sarà, poi, con me a ricevere i soldati? –s'arrovellava Farfuglia– Cicco Tòmolo, certo, che verrà per vedere, per sfottere e per poter raccontare poi ai quattro venti tutte le malignità che gli verranno in testa; e poi? se qualcuno va al negozio di Mingo a comperare una libbra di salacche, lui lo manda via e chiude il negozio per venire a far buona accoglienza ai soldati? Va a chiedere a Guiduccio, il sarto, perché non era presente al ricevimento! Dirà che proprio allora era andato Don Chissachì a farsi prendere le misure per un vestito nuovo! Bottegai, fedeli al motto loro: alla fiera vacci e al negozio stacci. Mi ci troverò io solo in piazza e la parte di Nardone questa volta la farò io!"

A quel punto s'era fatto tardi e gli impiegati del Comune (che poi erano tre in tutto) dovevano essere ai loro posti. Il Sindaco chiamò il messo comunale: "Dì al Segretario che scrivesse e facesse iettare il bando per avvisare la cittadinanza che posdomani arrivano i soldati e...e che bisogna dargli il benvenuto!"

Poco più tardi, nella quiete delle strade del paese, dopo il nasale peee... del corno del banditore, veniva recitato il bando come una poesia non compresa, secondo la cadenza delle righe scritte dal segretario sul foglietto di carta.

Che quel bando valesse a radunare gente per una festosa accoglienza al Decimo Reggimento Granatieri del Regio Esercito, Peppe Farfuglia non lo credette affatto. "Qualche curioso –pensò– qualche sfaccendato che resterà col culo incollato alla cantonata più lontana della piazza, con aria assente per paura che gli si comandi qualche cosa; i soliti monelli che saranno riusciti a sgusciare tra le gambe dei genitori che volevano chiuderli in casa per tenerli lontano dalla confusione!"

Gli unici su cui il Sindaco pensava di poter contare altri non erano che i tre impiegati comunali, Zibono e Pitolla le due guardie campestri, il netturbino e il becchino, sui quali ultimi sentiva di avere autorità indiscussa. "Meglio che trovarsi solo come Nardone!" rifletté. (Già, perché c'era sempre l'ipoteca di quel fatto precedente). In realtà sulle due guardie campestri non era poi tanto sicuro di poter contare perché pensava che tenessero più per il Tòmolo che per lui; a parte il fatto che erano sufficientemente indisciplinate del loro per aver bisogno di esser istigate in tal senso da chicchessia. Soprattutto Pitolla, il quale, da quando aveva ammazzato un orso era diventato –o si sentiva– un eroe popolare! Invece di fare il suo lavoro, passava la maggior parte del tempo nelle osterie a farsi pagare da bere per raccontare –ogni volta con particolari inediti– la sua avventura con l'orso: era solo che stava tornando in paese dopo la giornata trascorsa a vigilare sui campi e i boschi comunali della Valle della Canala, quando da un macchione sbuca e gli si para davanti, in piedi, un orso. Era alto quanto una volta e mezzo lui, ringhiava e urlava come fosse un lupo mannaro e poi si rimetteva di nuovo nel folto della macchia; si nascondeva dietro i tronchi degli alberi più grossi e cercava di prenderlo alle spalle. Lui doveva trovare il tempo per caricare il fucile perché proprio poco prima, per sicurezza, lo aveva scaricato; poi doveva cercare di fare un buon tiro per colpirlo a prima botta, perché un colpo solo aveva il suo fucile e la pelle dell'orso è dura e quello non gli dava certo il tempo di ricaricare. Così, facendo fronte all'orso pure lui con urla e sassate, quand'ebbe caricato il fucile, un momento che l'orso tira fuori la testa da dietro a un tronco, pronta parte la schioppettata, dritta in un occhio. E l'orso eccolo lì!

Peppe Farfuglia, per richiamare all'ordine questo indisciplinato dipendente, pensò di ricorrere alla moglie che, a detta di tutti, almeno entro le mura domestiche riusciva a farlo rigare diritto. Ordinò allora al messo comunale di andare alla fonte e di fargli venire subito innanzi Annina la lavandaia, moglie di Pitolla.

La donna si precipitò dal Sindaco sicura che quella chiamata avesse attinenza col licenziamento di quel fannullone di suo marito, ché già da tempo lei se l'aspettava. Avrebbe cercato di perorare al Sindaco la causa della sua famiglia e dei tre bambini che aveva messo al mondo con quell'uomo; avrebbe cercato di rabbonire il sindaco, avrebbe fatto tutto il possibile per difendere suo marito; ma se le cose andavano a malora...beh, allora lei avrebbe parlato chiaro! Perché in paese fosse salva almeno la sua reputazione di grande lavoratrice a fronte di quella del marito che era già bella e rovinata.

Annina giunse ansante al cospetto del Sindaco, tenendo con una mano il grembiule avvolto su un fianco, gesto che voleva essere di rispetto e di decenza per il luogo e le persone che aveva davanti e che, facendole ergere il busto e rimarcando la curva ben modellata dei fianchi, le conferiva un aspetto di battagliera fierezza corrispondente al suo vero stato d'animo. "Suria, 'gnor Sindaco, m'hai da scusà –disse– se mi presento senz'essermi cambiata innanzi a lorsignori, ma stavo alla fonte...e m'hanno detto di venire subito, di furia..."

Il Sindaco voleva esser brusco e deciso nel parlare con lei, ma non trovò subito la formula, sicché quella ebbe il tempo di proseguire il suo discorso:

"Perché se io non mi alzo la mattina alle quattro e non vado per legna al bosco, a casa mia il fuoco non si accende!...Qui s'accorse di aver iniziato alla rovescia il discorso che voleva fare al sindaco; le sue carte personali avrebbe dovuto metterle in tavola solo dopo che fosse fallita una prima difesa, diciamo d'ufficio, di suo marito; ma ormai il discorso era avviato, la faccia del Sindaco, di solito inespressiva e melensa, stavolta era buia, sicché continuò: "E se poi non mi spiccio, lesta, ad andare alla fonte a lavare i cofani di panni dei signori, non si mangerebbe... –qui trovò modo di riprendersi– Ma senza quel poco di stipendio di mio marito fino alla fine del mese i figli miei il pane non lo terrebbero..."

La donna pareva non volesse finirla più, ma a quel punto il sindaco ebbe proprio da lei l'idea giusta per tener Pitolla in pugno. "Beh –la interruppe– se tuo marito non sarà in piazza, e con la divisa in ordine, posdomani all'arrivo dei soldati, ti assicuro che su due piedi lo licenzio; ché c'è un altro giovane volenteroso da mettere al posto suo! Con la storia di questo orso tuo marito non si raccapezza. Io non ne voglio più sentir parlare; è stato coraggioso, è un tiratore scelto, oramai lo sa tutto il paese che gli ha pagato da bere; adesso basta!" Ad Annina, alla quale la lingua per la storia dell'orso già prudeva da tempo, non parve vero di poter vuotare una buona volta il sacco; anche perché così poteva dimostrare al Sindaco che il marito era in suo potere e che d'ora in poi poteva stare tranquillo. D'altro canto, ora avrebbe avuto un buon motivo da addurre a suo marito per giustificarsi di aver rotto la promessa solenne fattagli di non raccontare a nessuno la vera storia dell'orso. Sicché proruppe: "Gliela dico io mò, a Suria, la verità dell'orso ammazzato da mio marito!... Quella sera mio marito tardava a tornare a casa come fa quando va a bere alla cantina con gli amici e io già ero pronta a fargli l'accoglienza che si merita (ché a furia di cazzotti gliela faccio passare io la voglia di bere) quando me lo sono visto arrivare davanti con la faccia spallidita, gli occhi sbarrati, le gambe che avevano la tremarella e una puzza, una puzza che appestava. Che t'è successo, che hai fatto? Basta! Allora m'ha raccontato che mentre tornava in paese s'era visto avanti all'improvviso un orso, che gli era preso un accidenti tanto era brutto e grosso; gli ha tirato subito una schioppettata e poi senza voltarsi addietro è scappato e con tre salti s'è arrampicato su un albero lì vicino. Da lì sopra, chiama e chiama aiuto, nessuno lo ha sentito, sicché c'è rimasto fino a notte fatta per paura che l'orso gli stesse a fare le poste. Solamente quando non riusciva più a reggersi su quei rami, che ci si era intisichito, è sceso ed è scappato più di furia che di carriera a casa; e se l'era fatta sotto. Lo so io che stomaco c'è voluto per lavargli le brache con tutta quella merda!....Innanzi alla faccia di lorsignori...uh... queste parole!.. Solo la mattina appresso, quando prima di giorno è andato a raccogliere il fucile, che per correre più svelto aveva buttato dopo che aveva tirato il colpo, s'è accorto che vicino al fucile ci stava l'orso stecchito con la schioppettata in un occhio! Allora ha cominciato a fare lo smargiasso. Ma potete star tranquillo che d'ora innanzi deve rigar dritto se no lo svergogno io! E deve smettere di bere, perché se il vino..." ma s'interruppe perché s'accorse che stava per ripetere al Sindaco la frase salace che soleva dire –non senza un certo compiacimento e ostentazione-– alle compagne in fontana: che se il vino avesse guastato al marito l'unica cosa che aveva di buono, quella era la volta che lei lo avrebbe cacciato di casa a pedate.

* * *

Che fosse stato l'effetto del bando o delle ritorsioni minacciate dal Sindaco a quanti potevano temerle tra i suoi concittadini o che, piuttosto, a muoverli fosse stata la curiosità serpeggiante in paese, istigata e ravvivata dalle parole di Cicco Tòmolo, la mattina dell'arrivo dei soldati in piazza era adunata una piccola folla. Primi ad arrivare erano stati i dipendenti comunali; Zibono e Pitolla, sulle cui uniformi erano ricomparsi i bottoni abitualmente mancanti e alcuni consiglieri, ad eccezione di quelli che erano bottegai; poi erano venuti gli sfaccendati, quei cittadini che si trovavano in quel momento liberi dai loro impegni e Schioppetta col suo buonumore. Manco a dirlo c'era Cicco Tòmolo, che agli occhi di uno spettatore ignaro dei fatti del paese pareva certo il personaggio più importante della comitiva. Si muoveva spedito tra i gruppi di persone; parlava con tutti accompagnando il discorso con rotondi gesti delle sue tozze mani ed un solenne alzare e abbassar del capo come chi, bontà sua, conceda udienza e prometta con sussiego all'interlocutore favori e appoggi. E tanto quello era spigliato e arzillo, quanto invece il Sindaco era impacciato e sovrappensiero; né era facile per un estraneo accorgersi che il Sindaco era lui, perché la fascia tricolore l'aveva cinta con riluttanza sotto la giacca e se ne scorgevano appena i tre colori di sotto le falde. Cicco Tòmolo, intanto, gli stava preparando un altro dei suoi tiri birboni. Poco prima dell'arrivo dei soldati aveva fatto portare dal bidello delle scuole elementari la pedana di una cattedra e l'aveva fatta disporre al centro della piazza, davanti al gruppo dei consiglieri e del Sindaco. Costui intuì l'uso perfido che quello voleva farne e fu sul punto di sentirsi male. Non era riuscito che a pensare quattro parole da dire al colonnello e agli ufficiali in tono colloquiale, in un crocchio in cui ci si sarebbero strette le mani e scambiati sorrisi stereotipati e quei convenevoli nei quali lui doveva stare solo attento a non commettere gaffes. Ora, una volta su quella pedana, che cosa mai avrebbe detto?

Mancava poco a mezzogiorno quando si udirono le note della fanfara del Reggimento. D'un tratto la piazza fu piena di soldati, con bandiera e colonnello sul suo cavallo in testa al corteo. Le note echeggiarono ancora un momento tra gli edifici, poi improvvisamente cessarono. Il Sindaco venne spinto sulla pedana da mani impietose, tra le quali gli parve di riconoscere per la spinta più decisa quelle di Cicco Tòmolo; si voltò verso i consiglieri con un gesto che voleva essere di cortesia e di invito affinché salissero anche loro su quella minuscola tribuna; in realtà era una implorazione estrema di soccorso. Inutile però, perché quelli proprio allora guardavano tutti da un'altra parte e molti avevano gli occhi alzati al cielo come a scrutare, se, nonostante il bel tempo, non stesse per venir giù un improvviso rovescio di pioggia a guastare la solennità della cerimonia. Peppe Farfuglia, come mai più in vita sua, si sente solo e smarrito. Ora deve inevitabilmente parlare; dare il benvenuto a quei militari che sono lì apposta per ascoltarlo, non aspettano altro!

Il colonnello lo guarda dall'alto del cavallo, poi smonta lesto e gli si pianta innanzi impettito nella divisa luccicante di alamari, appoggiato in fiero cipiglio alla sciabola con tutt'e due le mani. Il viso dell'ufficiale, che gli sta proprio di fronte, alla stessa altezza del suo, sebbene egli sia sulla pedana, con i due mustacchi e lo sguardo chiaro e severo di sotto la visiera, gli dà la sensazione di avere di fronte il Re, quello del ritratto appeso nella sala del Consiglio, sceso di lì a sentire tutt'orec-chi il suo discorso. Non aveva scampo, ora doveva aprire bocca! Ma questa era asciutta, la lingua paralizzata tra i denti. "Benvenuto..." balbetta. Poi silenzio, un interminabile silenzio. Quindi con un impeto di volontà, con voce un po' più forte ma strozzata, non sua, che lui stesso ode estranea: "Benvenuto Decimo!" dice ancora. La favella però è smarrita; Peppe non trova le parole! Nulla pensa e sente che lo accomuni a tutte quelle persone che gli stanno innanzi, al motivo della loro venuta in paese, niente che gli suggerisca un'idea, una frase qualsiasi che lo tragga d'ipaccio! Il suo sguardo, svincolatosi infine da quello freddo del Colonnello, erra sui chepì e tra le canne dei fucili che assiepano la piazza; pensa al suo fucile nuovo... Ecco l'idea! Con più naturalezza, con l'ombra di un sorriso sulle labbra: "Benvenuto Decimo –dice– io sono cacciatore!" E fu tutto.

LA PASSATELLA

 

"La taverna nostra è la Tutulla, non ci sta niende da fa'!" intervenne perentorio Panatella. Nel gruppo la contesa cessò e degli smozzicati: "No... perché diceva isse..." e "Veramende io..." si persero nell'aria invernale fredda e bianca della piazzetta.

"Allora poche chiacchiere! –riprese Panatella con un volger d'occhi che gli guizzò beffardo di sotto le folte sopracciglia– Per la passatella, a stasera, c'è tempo! Mò Giannamico e Arturo, ognuno con la traglia sé, vanno in giro per la cerca della legna e Carluccio e Matté spalano la neve e fanno il posto per accannarla quando s'è raccolta."

"E io e Tummasino che facciamo?" disse Zamirro.

"Girate lo stesso per le case a cercare legna; poi portatela sulle spalle, visto che non tenete né una slitta, né un asino per caricarcela! Oppure fatevi imprestare da qualcuno una tragliuccia e tiratela voi al posto dell'asino mentre girate per il paese. Insomma datevi da fare tutti e portate qui quanta più legna potete. Ce ne vuole tanta, sennò all'asta non si fanno i soldi per pagare la festa a S. Antonio, la festa non riesce e io ci faccio una figura di merda!" conchiuse Panatella con aria sprezzante, e i suoi sottili baffi si prolungarono nelle pieghe tirate degli angoli della bocca.

"La figura di merda ce la facciamo anche noi; tutta la Commissione ce la fa, non solo tu!" replicò Zamirro; ma Panatella era già andato via imprecando.

"Avete sentito? dobbiamo darci da fare –continuò Zamirro rivolgendosi ai compagni– intanto lui sen'è ito per i fatti suoi".

"I fatti suoi, se non lo sai –disse Tummasino– sono che oggi il cognato fa le nozze col porco e lui va a casa della sorella giusto in tempo per il pranzo, quando la fatica è fatta e il porco lo hanno già appeso e spaccato!"

"I fatti suoi sono pure quelli che non sono i suoi!" mugugnò Zamirro.

"Che?" fece interrogativo qualcuno.

"Niende!" conchiuse Zamirro.

Si avviarono tutti per la questua della legna.

Quando tornarono ciascuno posò in terra il suo carico e nella piazzetta si formò un grosso mucchio di legna da ardere. Allora gli uomini cominciarono a far le canne nello spiazzo liberato dalla neve.

Panatella tornò allora accaldato e trafelato come se fino a quel momento fosse stato impegnato in un lavoro faticoso, e certo voleva farlo credere, ma odorava di vino e di porco spaccato di fresco.

"E' sempre una bella festa quando s'accide il porco!" disse qualcuno degli uomini.

Panatella non rispose. Fulminando tutti con lo sguardo mugugnò in sordina, come per non essere udito da passanti che in quel momento non c'erano: "che fià, che fià, che facete; belli azzeccati ciocchi e ramorelle eh! Sai quante canne di legna vengono fuori così? a malapena una, una e mezza!

Le cajole, le cajole, le capannelle ci dovete fare. Se non le fate sotto, nella catasta, le farete sopra che si vedono?

L'ho sempre da fare con i quatrali io; quatrali di coccia, ché di anni invece ne avete quanti il cucco!..."

* * *

Quando le cataste furono fatte, Panatella le guardò con disgusto: "Poca, una miseria di legna avete raccolto –e fissando Zamirro– non siete buoni a niende!" conchiuse.

Zamirro sostenne con fermezza quello sguardo.

Era scesa la sera.

"Stanotte nevica!" disse Tummasino.

Mentre si recavano alla cantina Zamirro disse piano a Tummasino: "Ricordati che Giannamico e Arturo jettano cinque e quattro alla conta e che Padrone deve essere Panatella, io Sotto e tu Donna! Lui vuole essere sempre Padrone, e 'sta volta Padrone sia fino all'ultimo bicchiere di vino. Io, invece, non ne bevo nemmeno uno!"

"Va bene, va bene, questo piacere te lo faccio, ma dimmi perché!"

"Sono fatti miei. E' un piacere, no? fallo!"

E' un vero uomo e regge il vino –si disse in cuore Zamirro– vediamo se regge quello delle nozze col porco e quello della passatella di questa sera!

"Stasera bevi e scaldati –gli disse Panatella, poco dopo, mentre entravano nella cantina– Stai pallido di freddo."

Zamirro non rispose. Lo odiò.

Un mammoccio così, deve averci quella bella moglie! pensò ancora una volta Panatella. Ma un altro paio di volte che lo riaccompagno a casa ubriaco...Questa sera, poi, dico che il marito ha bisogno di un caffè forte e lo accetto pure io; me lo offrirà, se lo dà al marito! Anzi.... può essere pure che la aiuto a farlo, il caffè... La fantasia di Panatella correva.

Nella cantina c'era un'aria densa di fumo e di vino; degli sguardi opachi incrociarono quelli della comitiva che entrava e cercava un tavolo libero. Taglienti "cinque!", "tre!", "tutta!" di due giocatori di morra sovrastarono i rochi saluti.

"Allora facciamo la conta per chi è Padrone: Pe' Tummasino!" disse forte Panatella quando furono intorno al tavolo. Le mani scattarono con le dita tese nel numero voluto, disegnando sul piano del tavolo una bizzarra geometria a stella.

"Venticinque" disse Panatella. Contò. Padrone era lui. Gli faceva piacere; inspirò aria. "Per il Sotto!" disse ancora. Iniziò la nuova conta: venti, no è ventuno: le dita furono contate di nuovo: Ventuno. Zamirro è Sotto.

"Bene –commentò Panatella– stasera puoi bere!"

Poi ci fu la conta per la Donna: toccò a Tummasino.

Il vino era arrivato sul tavolo e i bicchieri erano in un vassoio di metallo pieno di ammaccature. Arturo li riempì fino all'orlo stando attento a non versare fuori il vino.

"Alla salute!" –disse Panatella– alzando e tracannando d'un fiato il primo bicchiere.

"Prosit!" dissero i compagni quasi all'unisono, secondo una sorta di responsorio di rito.

"Questo bicchiere adesso lo beve il Sotto!" disse poi Panatella prendendo un altro bicchiere e tendendolo a Zamirro.

Zamirro disse che avrebbe cominciato a bere dopo. I primi bicchieri, col permesso della Donna, lui poteva darli da bere a chi voleva. Ci fu un contrasto: il Sotto doveva decidere di volta in volta se lui voleva bere o no; non poteva dire che avrebbe saltato le passate di vino tre o cinque o quante ne volesse!

Zamirro ad un certo punto troncò la discussione e si disse d'accordo col punto di vista di Panatella. Ciò non modificava il suo proposito; fu quindi attento a far sì che la maggior parte dei bicchieri di vino li bevesse il Padrone tanto che Panatella pensò che Zamirro volesse ingraziarselo. Quanto agli altri bicchieri poteva berli chiunque, lui nella comitiva non aveva né preferenze, né antipatie. In realtà avrebbe anche bevuto qualche bicchiere per non destare sospetti, ma assolutamente non voleva che il suo fiato odorasse di vino. Quando Panatella cominciò a insistere che il Sotto è Sotto pure perché deve bere, uno sguardo d'intesa di Tummasino lo aiutò a superare la strettoia: al successivo invito del Padrone a bere un bicchiere, Zamirro tese il braccio per prenderlo; ma proprio allora la Donna aveva un impellente voglia di bere e il bicchiere passò di mano. Risero tutti a lungo sul grugno di Zamirro per quella che era parsa una beffa e lui aiutò il gioco fingendosi contrariato.

La voce di Panatella era diventata impastata e roca quando tornò sull'obbligo di Zamirro di bere; allora Zamirro prese Panatella sulla parola: "Un uomo non è uomo se non regge il vino! L'hai sempre detto e stasera che t'è successo? proprio ora che vogliamo incominciare a bere davvero per scaldarci, ché con quella legna ci siamo ammazzati, ti contraddici e non vuoi bere quello che per regola del gioco ti tocca? e poi è presto, c'è tempo per bere tutti. Non ancora suona la campana ..."

"No, è suonata!"

Mentre i bicchieri di vino passavano di mano e venivano tracannati, o centellinati con certa riverenza schioccando la lingua sul palato alla fine del bicchiere (e questo era musica alle orecchie dell'oste, ché in tutto il paese non c'era vino che reggesse il paragone col suo) Zamirro andava rimuginando il concetto del vino, e che non è uomo chi non lo regge.

Il vino –pensava– può essere genuino o traditore come tutte le altre cose della vita, del resto, che possono essere buone o cattive, vere o false. Tutto sta a saperlo, ad accorgersene! Prendi questo Panatella: fuori è come vuol parere lui, amico o nemico; ma dentro, dentro è sicuramente marcio, cattivo. Però senza di lui non ci sarebbe la comitiva, non ci sarebbe la Commissione e forse a S. Antonio non si farebbe nemmeno la festa e, a dir la verità, non ci sarebbero nemmeno quei lavori che nei periodi magri lui riesce a prendere a cottimo e poi spartisce con noi. E' come il cacio pecorino quando ci sono i vermi: fuori sembra normale e ha un buon odore, lo apri e fa schifo con quei vermi che brulicano e saltano, poi, se lo prepari bene, lo mangi ed è una squisitezza! Perciò, una lezione devo dargliela: lui il gallo lo va a fare a casa sua! Questo lo so che è vino traditore; sarei proprio scemo a berlo!

* * *

S'era fatto tardi, nella cantina erano rimasti i due giocatori di morra che fissavano muti una bottiglia vuota e un bevitore solitario che dormiva con le braccia conserte sul tavolo. L'oste aspettava che andasse via la comitiva di Panatella per scuoterlo dal sonno, prenderlo per un braccio e trascinarlo fuori dalla cantina. Panatella, immerso nella meditazione ebete dell'ubriachezza triste, aveva ora le pieghe del volto distese. Giannamico e Arturo, ormai convinti di dover andar via, avevano iniziato le trattative per vedere chi dei due dovesse accompagnare l'altro a casa e quindi salir su a bere un ultimo bicchiere per suggellare una così fraterna e profonda amicizia. Zamirro guardò Panatella: gli sarebbe bastato spostare con la punta del piede lo sgabello su cui era seduto per farlo scivolare lungo disteso sotto il tavolo. Ma fu solo un pensiero. Disse a Tummasino che, visto lo stato in cui s'era ridotto Panatella, toccava a loro due riaccompagnarlo a casa; anche perché Carluccio e Matté, abitando rispettivamente uno alla Covatta e l'altro a Sante Cantino, i due capi opposti del paese, se n'erano andati via ognuno per conto suo; sicché, preso sottobraccio Panatella, s'incamminarono. Lungo la strada l'ubriaco continuò a voce alta il soliloquio triste che svolgeva nella sua mente e ogni tanto formulava, all'uno o all'altro dei due accompagnatori, interrogativi che presupponevano l'assenso incondizionato e convinto che, naturalmente, subito riceveva.

Quando furono nei pressi della casa di Panatella, Zamirro disse a Tummasino che ora poteva cavarsela da solo a portar su l'amico (che fossero stati in due a doverlo riaccompagnare l'indomani, ormai, lo avrebbe saputo tutto il paese). Lo ringraziò del favore che gli aveva fatto durante la passatella, gli augurò la buona notte e si diresse con passo veloce verso casa sua.

L'aria era rigida, si era levata la tramontana che aveva spazzato le nubi basse della sera e la luna stendeva pennellate chiare sul paesaggio. Ormai non nevica più, pensò Zamirro, sta gelando! Al 'Giro del Paese' incontrò Giannamico e Arturo i quali reggendosi l'un l'altro procedevano per strada zigzagando; li vide staccarsi dal portone del palazzo Grilli, dove si erano appoggiati in una pausa del loro cammino, e con passi incerti, sempre più accelerati per la pendenza della strada, andare a fermarsi contro uno dei pilastri dell'Arco del Macello, dopo aver evitato in modo fortunoso la ceca antistante.

Arrivato sotto casa sua guardò la finestra: era buia; sua moglie non lo aveva aspettato, aveva spento il lume ed era andata a letto. Naturalmente di umore nero! Non aveva assolutamente creduto che lui avrebbe smesso di ubriacarsi quando era con quella razza di amici; tanto meno, poi, se Panatella faceva parte della comitiva. E, per la verità, fino ad allora aveva sempre avuto ragione a non credergli. Quella volta lui glielo aveva promesso in modo solenne ma, evidentemente, non era riuscito a convincerla: per la faccenda del bere la fiducia di sua moglie l'aveva proprio perduta!

Entrò in casa senza far rumore; voleva sapere se sua moglie dormiva veramente o no. Si tolse di dosso cautamente i panni e li poggiò su una sedia lontana dal letto. Quelli puzzavano sicuramente di vino, anche se il vento per strada li aveva incessantemente sbattuti. Si fermò, poi, ad ascoltare il respiro della moglie; sentì che era sveglia e intuì che da quando era rientrato lei aveva acuito l'olfatto e l'udito. Allora si accostò al letto in silenzio, facendole credere che riteneva che lei dormisse e vi entrò piano. La moglie smise di fingere, annusò forte l'aria, poi si avvicinò di più a lui ed annusò ancora mentre lui respirava forte.

"Non hai bevuto questa sera –disse– non hai bevuto davvero!" E si strinse a lui.

PARTE SECONDA

 

 

PADRE

Pergamene, bozze di stampa, stetoscopio, bisturi, incunabulo, applicazione di forcipe... le parole sono nel lessico familiare, perfettamente assimilate dai due bambini che frequentano le prime classi delle elementari; così come i concetti di appunto bibliografico e di ricerca archivistica: cose da fare con grande attenzione e meticolosità; di polmonite: malattia grave con la "crisi" al settimo o al nono giorno; di setticemia: malattia quasi sempre mortale.

La porta della biblioteca non ha una maniglia per aprirla come le altre; si apre solo con la chiave che ha il Dottore, o la apre lui da dentro con un pulsante. Lui, lì, tra pareti completamente rivestite da scaffali pieni di libri e libri ammonticchiati dappertutto, è sempre curvo su vecchie carte e non risponde, ma seguita a scrivere.

"Dotto' c'è 'na bonafemmenache vi cerca..."

Silenzio.

"Pare che vuole una visita..." azzarda la domestica.

"Ora vengo" e scrive ancora con evidente disappunto.

"Chi sei tu?"

"So' la figlia di Benedetta...mbe...gli dicono 'la Ntramata' per soprannome....Mamma ci ha 'na pena..."

"E non c'è il medico condotto?"

"Scibbeneditto, vole a surìa!.."

"Va bene, va bene ora vengo!"

Durante il pranzo la moglie chiede al Dottore che "pena" avesse la donna che l'aveva chiamato al mattino. "Pena, pena...–risponde il marito– qualunque malessere più o meno acuto qui, a Pescocostanzo, lo chiamano 'pena'; di febbre puerperale si tratta, e non è più una donna giovanissima. Iddio gliela mandi buona!"

"Dio mio, poveretta! Assistila, torna ad osservarla!..."

Erano i primi anni trenta e il Dottore aveva deciso di ridurre sempre di più la sua attività professionale. Decisione che non rappresentava per lui la fine di una carriera, né una definitiva, obbligatoria rinuncia al lavoro, come di solito accade a chi è trasformato in un sol giorno, per un legale limite di età o un biologico limite di forze, da individuo attivo e socialmente utile in ozioso pensionato. Il Dottore soleva ripetere, infatti, semel medicus, semper medicus, adattando alla sua professione quel motto sul sacerdozio. E medico, infatti, sarebbe rimasto fino all'ultimo istante della sua lunga vita. Quale fosse il motivo preminente a indurlo nella decisione di abbandonare la professione attiva, il Dottore non lo precisò mai a nessuno, né forse lui stesso se lo era mai chiesto. Certamente una grande passione per gli studi storici e le relative ricerche archivistiche aveva sempre più conquistato l'animo suo. La sua innata, insaziabile curiosità trovava in tale disciplina un appagamento che la relativa limitatezza delle cognizioni mediche di quei tempi e la quotidiana ripetitività degli atti professionali non potevano compensare. L'età, poi, sui sessanta, era una vetta che gli consentiva di abbracciare un ampio panorama di mondo, attraverso il quale s'era snodato il cammino della sua vita. Che pareva brevissimo se gli si presentava di scorcio, fatto da tanti ieri fittamente stipati a formare un solo giorno appena trascorso; ma ben lungo se di proposito si impegnava a ricordare in successione cronologica luoghi, uomini e fatti vissuti. Da quel suo osservatorio credeva di poter scrutare con buona approssimazione il cammino ancora da compiere e che non doveva sembrargli particolarmente accidentato.

In verità, eventi assolutamente imprevedibili quattro o cinque anni prima, si erano verificati nella sua vita in quell'ultimo lasso di tempo e avevano aggiunto quello che comunemente si ritiene debba far parte integrante della vita di un uomo, se vissuta con pienezza: una moglie e dei figli. Era accaduto, infatti, che alla fine degli anni venti, quattro suoi fratelli di età molto più avanzata della sua, avevano riflettuto che il loro casato si sarebbe presto estinto. Infatti, i nipoti ancora in età di prender moglie non mostravano di averne alcuna intenzione e coloro che l'avevano presa non erano stati prolifici. Questi quattro fratelli (il maggiore era stato un alto, austero magistrato e conservava intatta l'autorevolezza del suo grado nell'ambito familiare) tutti di età tra i settanta e gli ottanta si erano rivolti a lui, che era l'ultimo, per chiedergli se avesse avuto l'intenzione di prendere moglie. In caso affermativo lo avrebbero nominato loro erede universale. Cosa li inducesse a pensare che questo matrimonio avrebbe assicurato una continuità alla loro stirpe non è dato sapere, né poi perché tale continuità gli stesse tanto a cuore; fatto sta che essi poi vinsero, per così dire, la posta in gioco.

Il Dottore, a quel punto della sua vita, l'idea di accasarsi riteneva di averla abbandonata; invece ora gli si riproponeva e in un modo certamente insolito: quasi come invito a partecipare ad un gioco a premi. E poi, pur se le eredità nel suo caso non erano condizionate alla nascita di un figlio maschio dall'eventuale matrimonio, lui si sarebbe in certo modo sentito un usurpatore di tali donazioni se la prole desiderata non fosse venuta. Inoltre i fratelli avevano detto: "Se te le senti di prender moglie..."; quella premessa cosa significava, a che si riferiva? alludeva all'impegno morale che il matrimonio e quel suo matrimonio comportava o non piuttosto a quello fisico, con chiaro riferimento alla sua età non più giovane? Era quella dei suoi fratelli una provocazione, un rimprovero per la sua vita di scapolo, che essi forse biasimavano, o piuttosto una loro indebita ingerenza in fatti suoi, del tutto privati? Poteva anche essere una richiesta di aiuto, di conforto che i fratelli afflitti da solitudine nell'estrema vecchiezza gli rivolgevano. Bene, lui accettò l'invito: se la sentiva!

Il Dottore aveva varie conoscenze femminili e avrebbe potuto trovare moglie tra queste; ma una nobildonna di Sulmona sua amica, spregiudicata e gaudente in gioventù, quanto pia e penitente in vecchiaia, gli aveva parlato qualche tempo prima di tre miti, graziose e non più giovanissime sorelle nubili viventi in quella città, figlie di suoi conoscenti. Quella signora, quando capitava l'occasione svolgeva compiaciuta le mansioni di pronuba; nostalgica sequela, forse, o sottile trama sensuale che riallacciava la solitudine delle sue giornate ai piaceri della gioventù. Quando il Dottore le chiese notizie più precise delle tre sorelle, organizzò subito un ricevimento nel suo palazzo per fargliele incontrare e conoscere; poi... avrebbe scelto!

Le tre sorelle, tra i ventotto e i trentacinque anni, erano rimaste nubili fino a quell'età perché i genitori, prima, avevano impedito i loro matrimoni. Questi sarebbero potuti avvenire solo dopo che una sorella maggiore, non molto carina, avesse trovato marito. Ché, se incominciavano a sposarsi "le piccole", nessuno avrebbe più chiesto la mano della grande! Ogni loro pretendente, perciò, veniva pretestuosamente respinto, a meno che non spostasse sulla prima figlia la sua attenzione. La disciplina e la mitezza delle tre sorelle resero vani i loro tentativi, che pure vi furono, di resistenza a tale imposizione, sì che l'autorità dei genitori ebbe in questo campo una assoluta affermazione. Dopo il matrimonio della sorella maggiore, che finalmente era avvenuto l'anno precedente, l'ordine di priorità nei matrimoni a seconda dell'età poteva non esser più rispettato.

Il Dottore incontrò al ricevimento della nobildonna le sorelle, ignare che quel giorno si sarebbe compiuto per una di loro il gioco del destino. Tutte mostravano meno della loro effettiva età e la sorella minore, pur ventottenne, conservava gli atteggiamenti che il ruolo di piccola della famiglia le aveva sempre assegnato. Esse erano ben fatte, slanciate, con occhi e capelli scuri; nei loro modi c'era spontaneità velata solo da una nota di lieve mestizia. Il Dottore, forse per la prima volta nella sua vita incontrando una donna avvenente, subì non solo il fascino femminile, ma avvertì una più profonda e complessa sensazione: quella derivante dalla sacralità d'immagine della coppia genitrice che stava per formare. Nella maggiore delle tre sorelle intuì una più matura dolcezza, una disponibilità più consapevole al rapporto matrimoniale, che di per sé complesso, avrebbe certamente avuto nel suo caso un particolare intreccio di sentimenti, di pensieri, di abitudini nuove da acquisire e antiche da modificare e perdere. Il suo intuito non lo ingannò. Il matrimonio fu celebrato nella casa della sposa nell'estate del ventinove e il viaggio di nozze si svolse nella penisola sorrentina ed a Napoli. Qui il Dottore fece una lunga visita all'Archivio di Stato, di cui era assiduo frequentatore, facendosi accompagnare dalla sposa dopo averla munita di giornali e di riviste, che lei ebbe tempo di sfogliare più volte mentre il marito conduceva le sue metodiche ricerche, confermando così fedeltà ad un suo scherzoso motto: "Carte vecchie e donne giovani".

Dopo un anno nacque il primogenito e il Dottore dovette esser medico per sua moglie e per suo figlio: il travaglio del parto durava da due giorni e v'era l'indicazione di necessità per una applicazione di forcipe alla partoriente. Questa operazione ostetrica gli era familiare: l'orologio Longines d'acciaio che aveva sempre in tasca era il dono che, ai primi tempi della sua professione in una condotta della Marsica, aveva voluto fargli un ferroviere della Rete Adriatica per dimostrargli la sua gratitudine alla quinta applicazione di forcipe che aveva praticato alla moglie, una per ciascuno dei suoi difficoltosi parti. Il Dottore non aveva mai pensato, però, di dover compiere un giorno quell'operazione su sua moglie e suo figlio! Ma non mostrò di vivere questo evento emotivamente; la lunga consuetudine con la realtà dell'uomo malato che attende soccorso fermò ancora una volta sentimenti ed emozioni e suscitò vivo ed acuto il senso dell'impegno e del dovere professionale. "Pensa prima a tuo figlio!" gli ripeteva la moglie, tra i dolori del parto. Ma lui doveva pensare ad entrambi secondo i rigidi canoni dell'ostetricia. Al lume di candela, perché un temporale quella notte aveva lasciato al buio il paese, aiutato solo dalla levatrice e dalla suocera che aveva voluto essere accanto alla figlia partoriente, fu medico attento e abile ostetrico. Quindici mesi dopo nasceva un altro bambino. Tra le mura di quella casa, dopo oltre cinquant'anni durante i quali s'era svolta una vita silenziosa e metodica, si udivano i vagiti dei piccoli e le ninnenanne cantate dalla madre e dalle altre donne di casa. Alle orecchie del Dottore, chino sui suoi libri, giungevano attraverso le stanze del palazzo i vagiti e le filastrocche:

Dietro a Santo Vito

ci sta una fontanella

piena piena d'acqua bella

mi ci lavai le mani

ci trovai un anello d'oro

lo portai a monsignore

monsignore non ci stava

ci stavan du'zitelle

che facevan frittatelle

me ne dieder'un boccone

che sapeva tanto bone

me ne dieder' un altro boccone

io lo misi sul bancone.

La banca cupa cupa

sotto c'era la lupa

col lupo vecchio vecchio

che non sapeva rifarsi il letto.

La gatta in camicia

crepava dalle risa

l'asino nella stalla

suonava la chitarra

il sorcio sopra al tetto

suonava il ciufoletto

i buoi in Primo Campo

fanno ndung e ndang

ndung e ndang!...

Gliele avevano recitate sessant'anni prima voci di cui ricordava il timbro e le venature. Lo pervadeva allora la sensazione della presenza fisica di una trama, di una continuità biologica che procede autonoma, attraverso uomini e generazioni; palpabile come un filo che si dipanava da un capo sconosciuto e che ora lui aveva teso verso un ignoto, inimmaginabile futuro. Forse non era stato altro che un più sottile filamento di questa trama a svolgersi attraverso quel desiderio di continuità familiare, sia pure indiretta, manifestato dai suoi fratelli.

Il presente, il quotidiano per il Dottore era apparentemente tranquillo, addirittura semplice da vivere. Ad una condizione di benessere economico si aggiungeva la stima di quanti lo circondavano e l'amicizia di uomini colti con i quali era in corrispondenza per i suoi studi storici.

Il suo impegno in questo campo stava allora divenendo pressoché assoluto con la collaborazione, prestata gratuitamente, alla compilazione dell'indice di un ponderoso Corpus di antichi cronisti, per conto dell'Istituto Storico Italiano per Il Medioevo. Lavoro che lo aveva impegnato per circa otto anni con ricerche d'archivio in tutta l'Italia. Intanto andava redigendo note e pubblicando altri documenti di storia patria e uno di questi lavori lo dedicò ai piccoli figli. Le interruzioni di tale studio, che abitualmente durava dalla mattina alla sera, erano dovute solo a quelle prestazioni professionali che non poteva evitare e al non molto tempo che dedicava ai due bambini a, narrargli argute e istruttive storielle. Ben poco lo interessavano gli eventi politici; al fascismo che in quegli anni celebrava i suoi fasti tra il consenso dei più, prestava poca o punta attenzione. Mussolini sarebbe passato, forse presto, senza lasciar tracce durature nella storia e nemmeno nella fantasia dei semplici che pure in quel momento aveva acceso; così come era passato in automobile sulla statale e la gente era corsa a vederlo e raccontava poi che Viàscio, con la camicia nera e la medaglia d'argento appuntata sul petto, s'era fatto valere e s'era issato sullo staffone della macchina presidenziale; che v'era rimasto un pezzo ritto nel saluto fascista e che Mussolini se n'era compiaciuto. La stampa, la radio che in quegli anni s'andava sempre più diffondendo, enfatizzavano fenomeni non nuovi nella storia; ma la radio bastava non acquistarla e dai giornali bisognava saper leggere tra le righe le poche notizie attendibili. Egli riteneva che la storia fosse maestra di vita: pure se la visione dello storico è retrospettiva e non consente alcuna previsione certa nemmeno dell'immediato futuro, la coscienza storica vale comunque ad evitare l'abbaglio di molte illusioni del presente.

Col crescere dei figli, però, nuovi rapporti anche formali mettevano capo a lui e doveva prenderne atto. Sebbene fosse naturalmente portato a riproporre nell'educazione dei figli gli stessi modelli austeri dei suoi tempi, l'intervento della moglie che a ciò si opponeva e il suo stesso ripensamento, gliene andavano rivelando l'inadeguatezza. Un giorno, volendo mantenere la promessa di portare dei regalini ai figli al ritorno da uno dei suoi viaggi di studio a Roma, aveva acquistato dei giocattoli in un negozio. Si era fatto aiutare nella scelta dalla commessa alla quale aveva detto l'età dei bambini. Mentre quella confezionava il pacco il Dottore vide tra gli altri giocattoli un cappello da bersagliere. Nella sua mente affiorò vivo il ricordo di una sua grande gioia infantile e della dura punizione che l'aveva seguita: il padre gli aveva portato da Napoli uno di quei cappelli; era ancora fresca l'epopea di Porta Pia e lui si era subito sentito bersagliere. Pochi giorni dopo, in una radiosa giornata di primavera i suoi fratelli e le sue sorelle, in allegra comitiva, erano andati in gita campestre al bosco di Primo Campo, lì dove nel silenzio della valle risuonano i campanacci dei buoi, quelli della filastrocca. Lui non aveva potuto partecipare alla gita: era un gruppo di giovanotti e di signorine e lui un bambino che si sarebbe stancato, avrebbe fatto capricci e si sarebbe dovuto portare in braccio. Inutile insistere; la mamma era stata d'accordo con i grandi. Sarebbe rimasto in casa a farle compagnia e lei avrebbe fatto cuocere nel forno assieme al pane delle pupattole di pandolce. Invece lui non si sarebbe stancato mai; avrebbe corso sempre, da vero bersagliere! S'aggirò per casa; la madre era affaccendata in cucina e non gli prestava attenzione, sicura che non sarebbe potuto uscir fuori. Il portone era chiuso e la catena con la quale si toglieva il saliscendi per aprirlo era stata per l'appunto sganciata. Per sollevare il saliscendi bisognava esser alti, essere grandi. Lui non poteva raggiungere in alcun modo il chiavistello. Si sentì disperato. Ma ebbe un'idea come un lampo. Sgusciò nella legnaia, prese un ramo a forcina, con quello il saliscendi s'alzava! Corse su, prese il cappello da bersagliere, tornò da basso, aprì il portone e via di corsa senza rispondere a quelli che, vedendolo, lo chiamavano e gli chiedevano dove andasse. Conosceva la strada perché l'aveva percorsa tante volte in calesse col babbo. La fece di corsa e raggiunse la comitiva mentre cuoceva in un paiolo all'aperto i maccheroni. Pochi badarono a lui e solo per annunciargli la solenne punizione che lo attendeva al ritorno. S'arrampicò sugli alberi, corse instancabilmente sui prati, tirò sassi in gara con i contadinelli del luogo. Obbedì di malavoglia alle chiamate dei fratelli che s'incamminavano per il ritorno. Per strada un violento acquazzone colse la comitiva; il cappello da bersagliere, che i contadinelli gli avevano invidiato e che lui gli aveva fatto provare con sussiego solo per pochi momenti, era divenuto una poltiglia informe e la visiera di cartone gli si attaccava alle gote. Disperato, avvertì appena i due schiaffi che il padre gli dette quando giunse a casa; restò, invece, a piangere a dirotto per il dolore di quella perdita nello stanzino dove per punizione fu rinchiuso, zuppo d'acqua com'era, fino a quando fu spedito a letto, digiuno. Quella sorta di punizioni il Dottore sentiva bene che non avrebbe potuto infliggerle ai suoi figli.

La commessa del negozio vedendolo assorto nei suoi pensieri aveva detto: "Il pacco per i suoi nipotini è pronto; che nonno premuroso hanno!"

Quel lungo arco di tempo da lui già vissuto prima di diventare padre, giocava inevitabilmente il suo ruolo ponendolo in una simultanea, paradossale condizione di padre e di nonno. Del resto, dopo il matrimonio, tutta la sua vita aveva incominciato a scorrere come su un doppio, divergente binario: di giovinezza, per le responsabilità nuove di capo di una nascente famiglia –cui s'accordava la sua eccezionale validità fisica– e di vecchiaia, per il cumulo di anni e di esperienza già vissuti. Il prisma affettivo dell'animo umano gli mostrava altre facce e la ragione cercava di formulare nuove idee e nuovi pensieri. La realtà sociale in quegli anni era divenuta (o quel matrimonio e quei figli gliela stavano mostrando) diversa dagli schemi antichi. Pareva certo, poi, per le contraddittorie ma sempre più incalzanti voci di guerra, che una nuova onda lunga della vicenda umana fosse prossima a frangersi in un gorgo che avrebbe risucchiato e travolto il vecchio ordine di cose e le vecchie idee. I sintomi di una prossima, forse immane, catastrofe a volte erano chiari agli occhi del Dottore come quelli di una malattia grave, di una infezione di cui era impossibile la prognosi; non valevano a mimetizzarli ed a confonderli le voci roche degli altoparlanti e le note stridule delle fanfare.

A Roma aveva visto esposte nella vetrina di un negozio maschere antigas per adulti e bambini. Il Dottore si chiedeva come avrebbe potuto proteggere la sua famiglia dalle calamità imminenti. Seppure l'età di tutti i membri di essa escludeva il richiamo alle armi, quello era solo uno dei tanti pericoli incombenti sulle famiglie. V'era il timore di carestie, di sommosse, di violenze, di invasioni da parte di eserciti stranieri come quelle che stavano travolgendo gli stati dell'Europa centrale. Dopo la guerra non sarebbe mancata l'inflazione monetaria. Speculatori e interessati consiglieri d'ogni genere erano già all'opera e tentavano di convincere chi ritenevano possessore di danaro, ad acquistare oro, oppure terre. Sconsigliabile, invece, l'acquisto di case che potevano esser bombardate... V'era, per un galantuomo abituato ad una vita di lavoro, di risparmio e di parsimoniosa amministrazione di una piccola proprietà, motivo di perdere la testa e con essa l'intero suo peculio. Il Dottore decise solo di aver disponibile per l'immediato futuro una forte somma di danaro liquido, quale in tempi normali la sua famiglia avrebbe speso in quindici o vent'anni; pel resto non prestò orecchio a consigli finanziari di sorta.

Era quell'oscuro velo steso sulla ragione degli uomini, quella grave crisi della civiltà che lo angosciava. Avendo avuto figli, intendeva assicurare non solo la contituità biologica ma anche la continuità civile e culturale della sua famiglia. Conoscitore profondo di tutte le principali biblioteche ed archivi d'Italia, lo era anche delle città, degli antichi quartieri e dei monumenti di esse. S'era proposto di condurvi i figli in viaggi di istruzione, di educarli così al culto dell'arte e del bello, di quanto è espressione del genio umano. Voleva che fin da adolescenti imparassero ad apprezzare le bellezze della natura. Anticipando la gioia di tali viaggi e preparandoli ad essi, descriveva ai figli le luci e la poesia di una passeggiata nelle ville di Ravello, la vita dei feudatari in un turrito maniero medievale, lo splendore e lo sfarzo di una corte principesca del rinascimento e le meraviglie dei codici miniati custoditi nelle tante biblioteche d'Italia. Una volta, durante un viaggio a Roma, approfittando della consuetudine con cui frequentava la Biblioteca Vaticana, volle condurvi i due ragazzi perché vedessero quelle sale splendide, accessibili solo a pochi ed eletti studiosi, delle quali aveva parlato tante volte. La visita ebbe luogo, ma fu breve perché il Prefetto della Biblioteca, un monsignore suo amico, s'accompagnò subito a lui tenendo costantemente d'occhio i ragazzi nel timor panico che, data la vastità dell'aula, vi organizzassero seduta stante un acchiappino. Quindi mostrò loro un libro con belle e colorate figure e pregò l'amico di condur via presto i due bravi figlioli; i quali dal canto loro, guardati con tanto d'occhi quei professoroni chini sui libri che non s'erano neppure accorti della loro presenza, baciata la mano al monsignore, in punta di piedi come erano entrati, se ne andarono seguendo il padre.

Nel giugno del quaranta la dichiarazione di guerra aveva spento nell'animo del Dottore ogni pur debole speranza che gli italiani potessero restare estranei alla convulsione mondiale. Tuttavia per un triennio la guerra per lui fu solo un succedersi di bollettini dal significato dubbio e soprattutto di notizie di lutti morali e materiali. Nel luglio del '43 invece la bufera investì in pieno la sua famiglia.

Il Dottore si accingeva in quei giorni ad andare a Roma con la moglie per commissioni familiari, quando una giovane, spiritata contessa che villeggiava in paese e che da pochi giorni aveva conosciuto la sua famiglia, appresa la notizia di quel viaggio, chiamò i due figli del medico. Presili in disparte, disse testualmente: "Impedite assolutamente il viaggio dei vostri genitori a Roma; domani Roma sarà bombardata e voi potreste rimanere orfani!"

"Che cosa può saperne quella matta?" sbraitò il Dottore quando, terrorizzati, i figli corsero a riferirgli la notizia. Né le invocazioni e i pianti dei figli ormai adolescenti, né un suo colloquio con la veggente contessa (la quale non poté o non volle offrirgli elementi di credibilità) valsero a distogliere il Dottore dal proposito del viaggio. Puntualmente, invece, a mezzodì del giorno successivo il treno col quale i coniugi viaggiavano fu investito da un uragano di esplosioni mentre stava entrando nella stazione Termini. Era il primo bombardamento anglo-americano di Roma che colpiva il quartiere e lo scalo ferroviario di San Lorenzo. Le ondate dei bombardieri si succedevano impetuose e i due coniugi, divincolandosi tra bagagli, corpi e lamiere, accecati ed asfissiati dal fumo, cercarono riparo tra le siepi della scarpata ferroviaria e nei cunicoli che l'attraversavano. Solo dopo due angosciose giornate i figli, che avevano appreso la notizia del bombardamento mentre era ancora in corso dal bollettino di guerra trasmesso nel comunicato radio dell'una pomeridiana, ricevettero un telegramma che li informava che entrambi, padre e madre, erano vivi e incolumi; telegramma che, appena giunto, l'ufficiale di posta fece recapitare subito, affettuosamente aperto, ai ragazzi.

Il 25 luglio, poi, cadde il fascismo. Quietamente, come fosse stata girata con noncuranza una pagina poco importante del libro di storia nazionale. Mussolini era scomparso nel nulla, caduto in un trabocchetto come vi precipitava l'ospite sgradito durante un ricevimento a palazzo in una corte feudale. Una certa tradizione era stata,così, rispettata dai Savoia.

Anche questo evento, quasi fosse una trama ordita per aumentare il senso di irrealtà che ora di tanto in tanto lo pervadeva, era stato preannunciato al Dottore oltre sei mesi prima. Una sua ricca paziente dei quartieri alti di Roma, nel corso di una visita, gli aveva detto con affettata noncuranza: "Faccia i suoi conti, Dottore, questi a luglio cascano!" Quali conti doveva farsi, lui che non era mai stato uomo di partita doppia?

* * *

Una pioggia fine e gelida cadeva da più giorni. Il Dottore dietro i vetri della finestra guardava i camini che alitavano tenui volute di fumo sui vecchi tetti zuppi e lustri, e più oltre, in fondo alla valle, le nuvole basse saldate ai neri boschi autunnali fino alle pendici dei monti. In strada passavano lunghe file di uomini silenziosi, fradici di acqua, con zappe e badili in spalla, guardati tutt'intorno, come le pecore dai cani, da soldati tedeschi armati di lunghi fucili. Erano forestieri rastrellati chissà dove e messi a scavare dall'alba al tramonto trincee e fossati anticarro nelle campagne.

Il fronte aveva raggiunto Pescocostanzo e il paese doveva essere evacuato entro quarantott'ore. Il Dottore volgeva lo sguardo ai suoi libri stipati nei massicci scaffali della biblioteca. Esaminava i dorsi delle rilegature: quelle antiche in pergamena, quelle delle edizioni rare e pregiate, quelle dei volumi fatti rilegare da lui, munendoli del suo ex libris; le pile dei libri consultati per ultimi ancora sui tavoli e sulle sedie. Il suo sguardo vagava nell'ampio vano dalla scrivania col grosso calamaio e lo sfogliacarte consumato dall'uso, alla sua poltrona col cuscino sdrucito ai bordi da tempo. Quegli oggetti parlavano un linguaggio nuovo, che non gli riusciva d'intendere bene. Tutto, tutto ciò stava per essere rubato o distrutto; così come i mobili di casa, quelli di uso comune e quelli che arredavano le sale del piano superiore: arazzi, specchiere, tappeti, lampadari. Oggetti antichi, di valore, questi, sempre stati da generazioni in quei posti, guardati ed usati; ma non fedeli, intimi compagni della sua vita come i suoi libri, le sue carte. Quei plichi di vecchie carte bambagine rosicchiate in parti uguali dal tempo e dai topi, ancora da aprire da quando una mano due o tre secoli prima li aveva confezionati e riposti con cura. Neppure immaginarle quelle mani sacrileghe che avrebbero violentati e scaraventati frettolosamente a terra i volumi dagli scaffali per vedere che cosa vi fosse stato nascosto dietro. Quell'idea era insopportabile. Fosse stato solo, sarebbe rimasto lì al suo scrittoio, a morire tra i suoi libri. Ma sua moglie lo chiamava perché l'aiutasse a legare due materassi; ad ogni costo li avrebbe fatti caricare sul camion che doveva portarli via, e qualche coperta. "Ricordati di indossare una doppia maglia anche tu, come farò fare ai figli...Pensa ad un nascondiglio per un po' di provviste...un sacchetto di farina, il prosciutto... Ora non possiamo portare altro con noi che questi pochi fagotti, ma può essere che ci riesca di tornarli a prendere!"

Fuori della biblioteca la casa era irriconoscibile; sua moglie e i suoi figli avevano frugato dappertutto come alla ricerca di oggetti che avessero la capacità di proteggerli dalle incognite della vita randagia di sfollati che li attendeva. Tutto ciò che non sembrava utile a tale bisogna veniva lasciato dove era venuto tra mano; a che sarebbe servito rimetterlo a posto?

Il Dottore sentì il suo animo tendersi allo spasimo, ma si proibì di porvi mente. Aiutò a confezionare i pochi bagagli che speravano di portare via, entrò ed uscì di casa più volte per piccole commissioni e intese col vicinato; rincasò che era già calato il coprifuoco. Il termine ultimo e improrogabile per lo "sfollamento" della cittadina era per la mattina successiva. All'alba di quel 3 novembre 1943 vi sarebbe stato l'ultimo camion diretto a Sulmona e poi al Nord.

* * *

Il camion militare tedesco partì dalla piazza del paese che appena si faceva giorno, carico di uomini e di fagotti. Il cielo era sereno e una luce pallida si rifletteva sui muri delle case vuote, con i punti neri delle porte e delle finestre spalancate, che tosto scomparvero agli sguardi sbigottiti dei partenti. Giunti a Sulmona il Dottore picchiò forte sulla cabina del camion mentre attraversava la città: "All'ospedale... à l'hopital, à l'hopital!" L'autista rallentò, poi fermò il camion e scese per vedere di che cosa si trattasse. "C'è un vecchio che si sente male; dev'essere portato in ospedale, non può proseguire il viaggio! Io sono medico!" disse, mostrando al tedesco un bracciale bianco con croce rossa e croce di Malta e un distintivo con simboli analoghi che aveva appuntato sul bavero della giacca. Erano cimeli della Grande Guerra, nella quale era andato volontario come medico dell'Ordine di Malta. Il soldato tedesco biascicò qualche parola... kommandantur... "Certo, certo, andate a prendere ordini al comando, kommandantur, ja, ja kommandantur!" Il tedesco non fece in tempo ad allontanarsi di quattro passi dal camion, che questo era già vuoto di uomini e di bagagli, scomparsi in un baleno nei vicoli del quartiere.

A Sulmona il Dottore si rifugiò con la famiglia nell'appartamento dei suoceri che vivevano lì. La moglie e i suoi genitori ebbero allora un gran da fare per organizzare i particolari logistici della nuova convivenza: il salotto fu smontato, furono acconciati dei letti di fortuna, i materassi legati in fretta tornarono di grande utilità, anzi furono indispensabili. Ma il Dottore avvolto in un mantello rimaneva tutto il giorno immobile in silenzio, seduto in un canto del divano, unico mobile del salotto lasciato al suo posto perché di notte serviva da letto per uno dei figli.

Non aveva trascorso nella sua vita neppure un giorno in simili condizioni di inattività fisica e intellettuale. Ma ora nel panorama che lo circondava non scorgeva un solo punto al quale riferire i suoi pensieri, quando nella tempesta delle emozioni e dei sentimenti fosse pure riuscito a formularne alcuno. Gli pareva di essere uno di quei malati ai quali una paralisi lega le membra e la favella lasciando integro l'intelletto e il loro spirito traluce solo dallo sguardo. Ma per essi il mondo che li circonda è presente e attivo nelle cure che in genere ricevono dai parenti; interrotto, per quanto importante, è solo il filo della propria comunicazione diretta e immediata. Per il Dottore, invece, non la favella, non le funzioni vitali, che erano integre, ma l'intera sua possibilità di relazione col mondo era interrotta; perché era il mondo del raziocinio, il suo mondo della cultura e dell'intelligenza a essere vittima di una paralisi totale. Tra gli altri assilli, uno gli folgorava a tratti la mente: la cognizione della sua età. Aveva già compiuto settantacinque anni, quanto tempo da vivere poteva essergli rimasto ancora? come non capire che era in quel modo misero che avrebbe finito i suoi giorni? avesse potuto immaginarlo quindici anni prima, quando invece aveva messo su famiglia! Cosa poteva far più lui per essa, ormai, oltre ad avergli offerto quel gruzzolo di danaro dal quale moglie e figli al mattino attingevano prima di avventurarsi alla ricerca del cibo quotidiano nelle campagne della Valle Peligna?

Nella mente del Dottore, dunque, non nasceva pensiero che non fosse buio, di dolore, forse di morte. Né i familiari avrebbero potuto serbare il ricordo di una sua diversa immagine in quei giorni, se quasi mezzo secolo dopo, l'uomo muto, avvolto nel mantello non fosse tornato tra loro (se per una volta è concesso il senso figurato delle parole) nell'abito, a lui più congeniale, dello storico austero. Così appare dagli scritti, vergati in quei giorni e trovati or non è molto, quando i figli, appreso il ritrovamento in Germania di una parte di quei suoi libri, hanno frugato tra le carte di quel tempo. Sono fascicoli di fogli protocollo nei quali con calligrafia chiara e minuta, con aggiunte e precisazioni il Dottore redige, man mano che ripercorre con la mente l'itinerario familiare tra i suoi scaffali, una sorta di catalogo della biblioteca e dell'archivio. Ne enumera le sezioni in ordine alfabetico, ne precisa la consistenza, le edizioni delle opere, il formato dei volumi, le rilegature, la rarità degli esemplari, l'esistenza di quelli analoghi presso altre biblioteche; indica le testimonianze degli studiosi che da ultimi avevano consultato i suoi libri. (Queste carte serviranno poi per il recupero dalla Germania di quel nucleo di libri). Ebbe il Dottore una sorta di premonizione di tale evento? o fu la coscienza dello storico, che soverchiando sentimenti, emozioni e la muta disperazione, lo spinse di notte, mentre i suoi familiari dormivano, a vergare al lume di candela in un angolo di una scrivania improvvisata, quelle memorie; a rendere per il futuro una testimonianza di storia lucidamente vissuta?

Il Dottore aveva appena datato "5 dicembre 1943" (ad un mese dal giorno dell'evacuazione del paese) e firmato quelle note, che circostanze del tutto imprevedibili dovevano dare una nuova e duratura impronta alla sua vita.

Tornata dal mercato (era il nome che ancora si dava alle poche sporte di verdura in vendita in un canto della grande piazza di Sulmona, dove in altri tempi si teneva due volte alla settimana una pittoresca e rumorosa fiera), la moglie, non appena fu sull'uscio di casa, cominciò a chiamare concitatamente il Dottore; ma questi, che pure non s'era di certo mosso dalla loro camera, non rispondeva. "Non mi senti? Sei diventato sordo? –esclamò la moglie entrando nella stanza– in piazza ho incontrato un vecchio dipendente di mio padre, di quando aveva delle proprietà in...... e da quel che lui mi ha detto devo pensare, anzi sono certa, che molti nostri mobili sono stati portati dai tedeschi proprio in quel paese!" Ma il marito pareva realmente sordo e continuava a rigirare tra le mani un rotolo di carta.

"Ma che hai in mano? mi senti o no?...che ti è successo?"

"Una pergamena! –esclamò lui, come parlando a sé stesso– una delle mie pergamene del secolo undicesimo! Un tedesco, un ufficiale tedesco è venuto qui a portarmela, a restituirmela!"

"Ah, allora è certo che la nostra roba è qui!" Esclamò ancor più agitata di prima la moglie. Riferì, poi, altri particolari appresi dal buon uomo al mercato. Costui, una volta sollecitato a parlare delle gran belle cose che i tedeschi stavano portando nel suo paese, si era profuso in descrizioni minute di tutto quello che aveva visto, sentendo di far cosa gradita alla preoccupata signora che lo interrogava e che lui ricordava spensierata e fiorente ragazza.

Erano degli autocarri pieni di mobili che arrivavano a ......, dove si diceva che provenissero dal palazzo di un arcivescovo, perché molte poltrone somigliavano alla sedia che in chiesa era riservata al vescovo, quando vi giungeva per i pontificali. Quella mobilia era destinata ad arredare la villa in cui aveva stabilito la residenza il generale comandante in capo di tutta la regione. Quando ce n'era troppa per tale bisogna, allora la roba finiva distribuita a destra e a manca alle persone che con i soldati tedeschi avevano confidenza. V'erano grandi specchiere con cornici intagliate e dorate, un tappeto tanto grande che nella sala del generale era stato ripiegato ai bordi, candelabri e tant'altre cose da gran signori. A quelle descrizioni lei s'era sentita venir meno. "...E la tappezzeria delle poltroncine è color crema con mazzolini di fiori di campo in ricamo?" aveva chiesto.

"Si, proprio cosi!"

"E nel tappeto sono raffigurati grossi mazzi di rose?"

"Proprio cosi! Ma che li ha visti anche lei questi mobili, conosce l'arcivescovo?

"Bisogna andar subito a ..... –la moglie cominciò a incalzare il Dottore– Rintraccerò vecchi conoscenti,...il notaio, il parroco..."

"Andrò al comando tedesco, è in un palazzo qui vicino!" esclamò il Dottore.

"Per i mobili?..."

"No, per la pergamena! Quel tedesco m'ha fatto intendere che la pergamena l'aveva presa o comunque avuta nel kommandantur di questa città".

La moglie si rese conto che in quel momento non avrebbe avuto la collaborazione del marito per formulare un piano di recupero dei suoi arredi. Recupero che difficilmente, poi, poteva essere immediato perché si sarebbe trattato di togliere l'osso di bocca al cane. Pensò, invece, che le informazioni che suo marito fosse riuscito ad ottenere sui suoi libri potevano completarsi a vicenda con quelle che nel frattempo lei avrebbe acquisito per suo conto sugli altri oggetti rubati dai tedeschi.

Qui, non potendo seguire tutte le vicende della famiglia, per quanto riguarda la sorte dei mobili cui tanto teneva la moglie del Dottore, basterà per tutto riferire un solo episodio. Alcuni giorni dopo il Dottore e sua moglie si recarono a ..... per accertarsi se fosse lì almeno una parte della loro roba. Scesi, appena fuori del paese, dal calesse che li aveva portati chiesero ad un distinto signore che passeggiava appoggiandosi per vezzo ad un elegante bastone se sapesse indicargli la villa del generale tedesco. Costui fu cortese e gliela indicò subito; era a un mezzo chilometro di distanza e già di lì si scorgeva cinta da un basso muro e da un giardino. A guidare meglio il loro sguardo il galantuomo indicava la villa puntando in direzione di essa il suo bastone. Il Dottore e sua moglie ebbero così sotto i loro occhi esterrefatti una delle canne d'India che faceva parte di una loro piccola collezione di bastoni antichi.

Il Dottore, adesso, accompagnava la moglie e l'aiutava nelle indagini prima e poi nei tentativi di recupero degli arredi della loro casa perché il suo stato d'animo era radicalmente mutato da quando il tedesco gli aveva restituito la pergamena. Da quel momento non aveva avuto più requie; forse era in tempo per salvare almeno una parte della sua biblioteca. Dopo aver rimuginato se gli riusciva di trovare qualcuno che frequentasse il comando tedesco e potesse fargli da interprete, non trovando alcuna soluzione per lui soddisfacente, si risolse d'andar da solo. Dovette vincere la ritrosia, anzi la vera e propria ripugnanza che provava a trattare con gli ufficiali tedeschi, i quali, ad eccezione di quello che gli aveva reso la pergamena, che gli era sembrato persona bene educata, avevano tutti un modo di fare burbero e altezzoso quando non francamente ostile. Si fece animo, comunque, e un pomeriggio si recò al comando; chiese ai piantoni di poter parlare con il comandante, disse il suo nome e dette loro una sua carta da visita. Mentre attendeva cercò di calmarsi; troppo lo interessava il fine ultimo di quell'incontro per lasciarsi coinvolgere da un eventuale atteggiamento ostile del comandante. Avrebbe detto in tal caso che era lì per ringraziare ("addirittura io ringraziare loro!" ghignò) per la restituzione della pergamena. Fu ricevuto, invece, con militaresca cortesia da un ufficiale che, per aver combattuto in Francia, parlava un comprensibile francese. Da costui seppe che l'importanza della sua biblioteca era nota all'amministrazione tedesca la quale, perciò, s'era fatto doveroso carico di far prelevare tutto quanto era stato ritenuto di maggiore interesse dagli esperti che l'avevano appositamente ispezionata. Per i libri e per gli altri documenti prelevati si erano fatte costruire delle casse da un falegname (il quale, rintracciato poi dal Dottore, confermò tale circostanza) ed erano state spedite e messe al sicuro in Germania. Era rimasta fuori, per una deprecabile svista, solo quella pergamena, e allora, per evitarne il probabile smarrimento, lui s'era personalmente interessato a fargliela restituire!

Il Dottore chiese subito che gli fosse rilasciata una attestazione del "prelievo" subito, ma ottenne solo un secco "Nein!" dal tedesco, il cui volto immediatamente, anche se per un attimo, si accigliò e incattivì. Si rese conto, allora, che in quella circostanza poteva tentare solo di impegnare l'ufficiale, quale rappresentante lì e per la sua parte, dell' amore del popolo tedesco per l'arte e la cultura, a fargli avere la disponiblità di un camion e di un lasciapassare per tornare a Pescocostanzo, a casa sua e mettere in salvo quanti libri potesse di quelli che ancora erano rimasti. Il tedesco promise che avrebbe cercato di accontentarlo. Dopo qualche giorno, anche in grazia di pressioni esercitate da altri studiosi amici sui comandi superiori, la richiesta fu soddisfatta.

Il viaggio fu compiuto dall'anziano Dottore insieme ad uno di quegli amici che in tale circostanza aveva voluto essergli vicino, con un camion militare tedesco, di notte, perché quella zona era sotto il tiro delle artiglierie Alleate.

Tornato il giorno dopo da quella gita, alla moglie che gli chiedeva minuti particolari delle condizioni in cui aveva trovato la casa, egli dette solo notizie sommarie e non volle dir altro se non che, nel disordine caotico che c'era e col poco tempo a disposizione, s'era dovuto applicare soprattutto a indicare ai soldati che lo aiutavano a empire casse quali libri, fossero da portar via e a far attenzione che quei militari con i loro modi rozzi non rovinassero ulteriormente quei libri che per esser stati anche sotto l'acqua, erano diventati fragilissimi. Raccolti quanti piùvolumi e carte aveva potuto, sollecitato a far presto dai soldati che temevano la ripresa del cannoneggiamento, il Dottore s'era voluto recare anche a vedere in quali condizioni fosse la Collegiata, che aveva cara quanto la sua stessa casa. Lì danni gravissimi, a uno sguardo sommario, non ne rilevò; sebbene l'uso della chiesa come dormitorio e deposito di materiali di ogni genere ne avesse stravolto l'aspetto familiare. Vide, invece, che le due antiche aquile di bronzo che erano messe come a sorreggere in volo le acquasantiere, tolte dal loro posto, stavano in terra accanto alla porta della chiesa. Forse era in tempo per impedire che esse compissero un volo troppo lungo perché potessero poi tornarne. Chiamò i due soldati che erano rimasti fuori, nel camion con il motore acceso: "Venire, prendere –disse loro indicando le pesanti aquile– portare a Sulmona!" L'ordine era risoluto e i soldati obbedirono. Le aquile subito dopo la fine della guerra tornarono al loro posto e sono lì certamente memori di quel loro unico e salutare volo.

* * *

Spostatosi al nord dell'Italia il fronte, il Dottore, senza por tempo in mezzo, tornò in paese con la famiglia. Poiché tra i molti edifici gravemente danneggiati c'era anche il suo palazzo, per alloggiare dovette prendere in fitto una delle poche case ancora abitabili. Giunse a Pescocostanzo in un pomeriggio dell'estate incipiente con un camion delle truppe Alleate, guidato da un canadese che aveva nonni abruzzesi. Il paese aveva l'aspetto desolato e sconvolto proprio delle immediate retrovie di una prima linea dove gli eserciti si siano fronteggiati per mesi. Nelle campagne incolte serpeggiavano cavalli di frisia e lunghe file di porte, di ante di armadi ancora munite di specchio, di sportelli e tavolame, piantati in terra a far da riparo ai camminamenti. Dappertutto crateri di esplosioni, casematte, carogne di animali. I crani dei bovini sparsi nella prateria piatta, con le corna rivolte al cielo, avevano un che di arcaico e solenne. Le strade del paese, attraversate da rari e frettolosi passanti, erano ingombre di frammenti di mobilia, di oggetti di uso domestico, di stracci, di bossoli e di proiettili inesplosi d'ogni tipo. Tacevano le voci consuete della vita paesana.

Sistemata quella sera la famiglia nella nuova e modesta abitazione, dopo una notte insonne, il Dottore, alle prime luci dell'alba si recò a casa sua. Le condizioni di essa, dopo la spedizione fattavi con il camion tedesco, erano ulteriormente peggiorate. Il tetto era stato incendiato, gli infissi totalmente asportati, in tutti i vani c'era uno spesso strato di libri e di carte, che commisti a paglia e a pattume di varia natura, erano stati strame per soldatesche, fuggiaschi e prigionieri. Quella visione lo sgomentò, respinse altre immagini e ricordi che pure gli urgevano al cuore; avrebbe avuto forze sufficienti per compiere l'immane lavoro che lo attendeva? s'aggirò per quelle camere irriconoscibili. Erano solo una vecchia crepa in un muro, un brandello di tappezzeria, un'antica macchia d'umido a fargli riconoscere il vano nel quale si trovava; a dargli un riferimento che sentiva indispensabile per rientrare nella sua stessa personale identità. Vagò nelle stanze per un giorno intero, perdendo e ritrovando sé stesso. A sera, mentre era seduto attonito in un canto udì le voci dei figli che lo chiamavano dall'altro capo della casa. Quella giovane famiglia era la sua unica consolazione! S'accorse di aver gli occhi umidi di pianto, si asciugò le lacrime e rispose ai figli. Tornò a casa con loro. I figli lo videro per la prima volta camminare curvo.

"Ho un po' di mal di reni, sono stato l'intera giornata chino su quei mucchi di carte" spiegò.

"Da domani ti aiuteremo anche noi" dissero insieme i figli.

"No, perché c'è polvere, sudiciume, c'è umido e ci sono correnti d'aria da tutte le parti."

"Ma se ci stai tu!..." ribatterono i ragazzi.

"No, è impossibile...Finireste di rovinare quei poveri libri!"

"Più rovinati di così?" ribatté il più piccolo, ma si accorse che il viso del padre era divenuto buio e severo e allora zittì.

"Aiutate vostra madre, invece, che ne ha davvero bisogno!"

Fin dai mesi trascorsi a Sulmona il Dottore aveva notato la sagacia e la grande energia con la quale sua moglie s'era impegnata nel salvataggio di ciò che ancora era possibile recuperare del patrimonio familiare e nella ricostruzione di esso; con quella dedizione e spirito di sacrificio di cui solo una donna madre e moglie può esser capace. Questa constatazione gli era di particolare conforto, perché sentiva alleggerito il peso dei problemi logistici ed economici della vita familiare che temeva di non poter d'ora innanzi sopportare da solo.

Nei giorni successivi sbarrò tutte le entrate del suo palazzo affinché nessuno potesse più camminare su quei cumuli di libri e allestì in uno dei vani meno ingombri una sorta di laboratorio di restauro: in esso dispose ampi ripiani, tese corde per appenderci come panni di bucato i fogli zuppi d'acqua; si munì quindi di ferri da stiro, di spazzole, realizzò presse con dei pesi e iniziò il suo lavoro. Chi lo raggiungeva in quella stanza (ma le visite non erano quasi mai gradite) in un rudimentale cartello affisso sull'architrave della porta poteva leggere: "COLLIGITE QUAE SUPERAVERUNT FRAGMENTA NE PEREANT S. Giovanni, Evangelo, Cap. VI, 12"

Le sue mani, lievi come palpassero un corpo dolente, s'insinuavano nei mucchi di carte evitando di provocare ancora uno strappo, ancora un danno. Mentre quella manciata veniva portata sul tavolo, l'occhio frugava attento a riconoscere fogli già noti. Man mano che i libri e le carte venivano spiegate sui piani, il Dottore ricomponeva frammenti, ricostruiva immagini, memorizzava lacune da completare. Si andavano così ricostituendo i nuovi fascicoli dell'archivio, si riunivano i quinterni spaginati dei singoli volumi. Veniva presa nota dei volumi mancanti in ciascun'opera e della pagine mancanti a ciascun volume. A volte il Dottore coglieva in sé un moto di gioia quasi infantile quando era riuscito a ricomporre interi un volume o un'opera.

Parve allora, specie a chi non aveva dimestichezza con lui, che volesse isolarsi in un culto sterile di ogni cimelio dell'umano sapere e chiudersi in un mondo di ricordi. Il suo costume di vita, sempre sobrio, era divenuto austero; i suoi bisogni materiali, meramente essenziali. A tali apparenze corrispondeva in effetti un suo stato d'animo mutato. Da quel lavoro solitario, in quella casa trasfigurata dagli eventi fino ad essere irriconoscibile, ma che non poteva in alcun modo esser separata da netti, perentori, infiniti ricordi personali; da quelle rovine di ciò che per un'intera vita era stato al sommo dei suoi pensieri e delle sue cure, gli pareva prendesse stranamente origine un senso indefinito di serenità; pensieri e perfino idee nuove. "E' possibile ciò alla mia età?" si chiedeva talvolta nelle brevi pause del suo lavoro, raddrizzando le reni e volgendo in alto lo sguardo come a fissare un punto estremamente lontano della sua vita. La storia, paradossalmente, aveva forse voluto impartirgli in quel modo una più alta, anche se dura, lezione? era forse una sorta di sfida all'uomo che voleva ritenersi colto? Certo mai, negli archivi più segreti ed esclusivi frequentati nella sua vita, come ora tra quelle rovine, gli era parso di essere a diretto contatto con le viscere della storia. Tali gli parevano le pagine dei libri lacere e imbrattate dal passaggio degli stivali stranieri, che tuttavia dalle righe leggibili stillavano il pensiero di un uomo colto, di un poeta vissuti due, tre, quattro o più secoli prima. A quell'ora della sua vita, se la mente gli si era serbata lucida, se una cultura la possedeva davvero, l'ancora della propria identità spirituale doveva essere in più sicuri approdi di quelli mossi e sbattuti dalle tempeste politiche e sociali che avevano imperversato, e che certamente avrebbero continuato a imperversare in futuro. Sentiva chiaro nella sua mente che d'allora in poi la sua esistenza non poteva realizzarsi in altro modo se non come intimo rapporto con le testimonianze della civiltà. Questa era un'indagine interiore che richiedeva rigore intellettuale nella ricerca dei valori essenziali e autentici della vita umana; spoglio ed eliminazione dai propri interessi delle scorie inutili, di ciò che gli risultava forma vuota di contenuti, espressione di mera ricchezza materiale o di fatua gloria mondana. Da tali pensieri originava una visione disincantata e pessimistica della società che lo spingeva a ravvisare solo nella ricerca e nella cultura il filo principale di cui è intessuta la labile tela della dignità dell'uomo. Ma tale concezione non spegneva sulle sue labbra il sorriso che esprime solidarietà a chi soffre, buon auspicio e speranza al cospetto di un fanciullo; né sminuiva la sua innata curiosità e la sua partecipazione intellettuale alle novità del tempo. Ma di positive e buone non ne vedeva al di fuori dei campi tecnico e scientifico; all'orizzonte si andavano profilando ideologie altrettanto totalitarie e aberranti di quelle appena abbattute, che avrebbero spinto ancora una volta all'estremo la corsa pendolare dell'umore dei popoli. Sicché soleva ripetere spesso, rivolgendosi ai figli: "Videbis fili mi qua parva sapientia regitur mundus!".

Avrebbe voluto infondere in loro un sereno distacco dalle illusioni e delusioni che inevitabilmente accompagnano la vita dell'uomo. Ma questo, che pure riteneva una sostanziale conquista dello spirito, era stata forse possibile (e ben ardua) a lui, alla sua età e dopo tante traversie; come trasferirlo, come inculcarne l'idea in quei giovani senza spegnere in loro le speranze e le illusioni che sono alimento del giovanile entusiasmo per la vita? Decise di raggiungere il suo scopo con l'esempio, più che con le parole, troppo spesso fraintese. Non si mostrò, quindi, mai sconsolato e la sua attività fisica ed intellettuale rimase incessante nel tempo. Era solo il tempo che poteva mancargli. "Ars longa, vita brevis" commentava tra sé.

Incredibilmente, invece, per un ventennio ancora dopo la devastazione della sua biblioteca, poté impegnarsi nella ricostruzione di essa. Nei mesi estivi e d'autunno lavorava nel suo palazzo al recupero dei documenti danneggiati, prendendo nota delle lacune e dei danni che avevano subìto e negli altri mesi cercava di colmare quei vuoti, di completare le testate mancanti ai volumi con assidue ricerche nelle librerie e biblioteche di Roma. In esse rimaneva assorto nello studio per l'intero orario di apertura, dimenticando spesso il pasto di mezzogiorno. Prese di nuovo fitti appunti, compì quasi senza volerlo nuove ricerche e nuovi studi e li pubblicò. Superstite di più di una generazione di studiosi ne incontrò e conobbe di nuovi.

Allontanatisi gli anni foschi della guerra e del dopoguerra, nel clima quieto e laborioso per la sua famiglia degli anni cinquanta, vide i figli crescere, divenire adulti e laurearsi; sentì allora per la prima volta, dopo tanto tempo, meno incerto il futuro. Il suo nome, noto nei circoli della cultura storica, specie in Abruzzo, attirava giovani studiosi, assistenti e laureandi delle facoltà umanistiche che gli chiedevano consigli per i loro studi. Lui li accoglieva volentieri, sorridendo, con lo stesso animo col quale tante volte si fermava a narrare agli operai che avevano terminato la giornata di lavoro nel suo palazzo in restauro, le vicende storiche del paese, l'origine e il valore dei tanti monumenti che in esso erano ancora racchiusi. Avvinceva l'attenzione di quegli uomini con una narrazione aneddotica ed elementare e cercava intanto di inculcare in loro l'amore e la cura per quel comune patrimonio di civiltà. Agli studiosi che lo consultavano offriva il frutto delle sue ricerche, pur se non ancora pubblicate, in lunghe conversazioni che il Dottore non gradiva che fossero interrotte; Cosa che, invece, accadeva quando il protrarsi del colloquio nel volgere di ore, interferiva con i ritmi e gli imprevisti della vita familiare. Allora l'interlocutore, alquanto a disagio, lo vedeva che, senza interrompere il suo dire e senza perdere il filo del discorso, respingeva con un gesto della mano il messaggio che qualche domestica o un figlio cercavano di trasmettergli. Pareva temere che una notizia, un concetto storico frutto di una sua lunga indagine, non venisse ben riposto e affidato a un'altra mente aperta a quella cultura; trapiantato in essa perché quel seme potesse germogliarvi e fruttificare per la continuità di quegli studi.

La sua memoria lasciava stupefatti gli ascoltatori: date, luoghi, indicazioni bibliografiche, notizie d'archivio e di studi di antica o di recente pubblicazione erano precise e circostanziate. Spesso gli ascoltatori chiedevano di poter registrare su nastro quelle vere e proprie lezioni, nelle quali anche aridi dati archivistici assumevano il calore e i toni delle vicende umane alle quali si riferivano.

"Ti sfruttano!" insinuava a volte stizzita la moglie, che da tanta sapienza ed energia del marito avrebbe voluto tornasse alla famiglia qualche beneficio "concreto"; ma lui si era pressoché estraniato dalla gestione degli interessi economici familiari e la moglie otteneva in risposta solo uno sguardo severo.

Alla fine degli anni cinquanta vide i figli prendere moglie. S'accese allora in lui una speranza assolutamente inimmaginabile prima: quella di diventare nonno. I sentimenti, i desideri che trent'anni prima avevano pervaso i suoi fratelli che lo avevano spinto al matrimonio, quelle leggi, quella trama biologica si caricavano in lui di nuove, dolci e trepide emozioni.

Il riserbo e la ritrosia per la quale di rado esternava i suoi sentimenti e i suoi affetti, non contennero l'empito di gioia e di vera esultanza quando nacque il primo nipotino. Voleva allora che crescesse in fretta per potergli narrare lui almeno una favola. Sicché in occasione del primo compleanno del bimbo, non essendogli vicino, non bastandogli le affettuosità e gli auguri espressi per telefono ai genitori che gli avevano fatto udire anche la voce del piccolo che balbettava "nnonno", preso un foglio volle scrivergli questa lettera:

"Mio carissimo nipotino,

tra due giorni tu compirai un anno, io ti sarò vicino col pensiero, non potendolo personalmente e col pensiero ti dirò tutte le cose più belle e gioiose per te. Vorrei che la vita ti sorridesse sempre per molti molti anni, lieto di tutto ciò che è bello, buono, giusto, onesto. Ora voglio però dirti che qui ogni mattina non appena apro le imposte un bel galletto fa chicchirichi e mi chiede quando verrai tu qui, perché vuol conoscerti e salutarti. Poi quando vado in biblioteca dal giardino adiacente un bellissimo cardellino, che canta divinamente, mi domanda anch'esso quando verrai; vuol farti sentire le sue melodie. Anche un ciuchino fa sentir da lontano i suoi ai, ai! E anche lui domanda quando verrai; anzi mi ha detto di scriverti (giacché non può farlo lui che da bambino non volle andare a scuola e così non imparò a leggere ed a scrivere e vide invece crescergli le orecchie e la coda) che quando verrai, ti porterà a cavallo come fanno i suoi fratelli di Villa Borghese.

A rivederci, dunque, presto caro, caro e nonno ti racconterà tante altre belle favolette. Ricevi intanto il più affettuoso bacio sulla fronte e sulle mani dal tuo vecchio

Nonno

* * *

Quella mattina aveva concluso con successo la ricerca dell'autore e del titolo di un volumetto mutilo di poesie secentesche. Era riuscito, dopo molte ricerche, a trovarne una copia nella biblioteca di un grande abbazia nei dintorni di Roma dove, ormai novantacinquenne, s'era fatto accompagnare in automobile. Se fosse stato ugualmente fortunato il giorno dopo avrebbe potuto completare un'altra ricerca nella biblioteca di Villa Malta; per andarci aveva già fissato un appuntamento con uno studioso suo amico. Nella notte fu destato da un atroce dolore al petto. La moglie chiamò il figlio medico: "Tuo padre sta male, da mezz'ora si lamenta, lui che non si lagna mai di nulla! Fino ad ora non ha voluto che ti chiamassi..."

Era un grave infarto al cuore; il dolore resisteva alla morfina e la sua forte fibra resisteva al dolore. Dopo le prime quarantotto ore, sedato il dolore, lenito il malessere che lo accompagnava il Dottore voleva spiegazioni dal figlio: quali farmaci intendeva somministrargli ancora; quale era la loro composizione e quali gli effetti; esattamente di che cosa si era trattato e che cosa rilevava dall'elettrocardiogramma che gli faceva così spesso, anche ora che stava meglio.

Il figlio riusciva solo in parte a celargli la natura del male, ma qualunque essa fosse, il Dottore aveva detto con tono che non ammetteva discussione, che mai si sarebbe mosso da casa sua. Nei giorni successivi, sentendosi meglio, cominciò a preoccuparsi degli appuntamenti di studio che aveva perduto. Bisognava telefonare agli amici con i quali si sarebbe dovuto incontrare, scusarsi a suo nome e intanto fissare i nuovi appuntamenti. Voleva che queste telefonate fossero fatte in sua presenza ad evitare che i figli impegnati nelle loro attività se ne dimenticassero o fossero imprecisi. Gli si portasse il telefono vicino al letto, poi, se non doveva alzarsi!

Sembrava che in quella mente lucida non s'affacciasse mai l'idea della morte. Solo una volta aveva espresso, con la decisione di un ordine, la volontà, da molto tempo maturata, di esser sepolto nel cimitero di Pescocostanzo: "Senza pompa –disse– bastano il prete e la croce!" Certo nella sua mente rivide allora la bella croce d'argento e d'oro che da bambino aveva portato tante volte nelle processioni con lo zio canonico, bisticciando con gli altri chierichetti per esser lui il crocifero.

Al figlio medico tutto ciò sembrava impossibile; l'età del malato e l'elettrocardiogramma non consentivano di far buone previsioni. Otto giorni dopo, la crisi fatale. "Una nuova crisi!" disse lo stesso Dottore scuotendo il figlio medico che gli era accanto. Poi lo seguì con vigile attenzione mentre s'affannava nei soccorsi: una iniezione endovenosa, un'altra, una fleboclisi, l'ossigeno, l'aumento della velocità di infusione della flebo...Ma il malore aumentava; un freddo intenso, un gelo gli invadeva dalle estremità tutto il corpo. Il vecchio medico formulò allora una diagnosi, l'ultima della sua vita: "Questi sono sintomi di shock; alla mia età uno shock è irreversibile. Togli quelle medicine –disse– non servono più, sono inutili! Chiama tuo fratello, invece, sennò non arriva in tempo."

La diagnosi era esatta. Prima che uno struggente commiato, il loro, paradossalmente, era stato il consulto di due medici al capezzale di un malato grave. Restavano pochi minuti di vita.

Mentre il figlio gli stringeva le mani e avvicinava al suo viso le labbra, il padre, come avesse vinto per la prima volta innanzi ai familiari il pudore dei suoi sentimenti, con l'espressione nel volto di chi è ansioso di trasmettere un ultimo, importante messaggio, disse: "Ricordate, se non ve lo avessi saputo dimostrare prima, che io vi ho voluto sempre tanto, tantissimo bene!"

"Ma tu, tu sei stato il Padre più straordinario e dolce che mai si potesse desiderare!" proruppe il figlio.

Il volto del padre tornò sereno e la morte fissò quel mesto sorriso che gli era abituale.

VITTORIO

 

Il suo nome è Melina. Vittorio è riuscito a saperlo e ora attende la libera uscita. Intorno c'è guerra; ma è fuori, nel petto c'è amore. Non conosce la lingua italiana, Melina, ma non serve: lei parla con gli occhi. Insieme, Vittorio e Melina la ragazza più bella di Samos; la più bella per tutta la vita! Tramonti sublimi, le rocce a strapiombo sul mare e quegli occhi neri e bianchi che rubano il cuore! La risacca accompagna e scandisce i baci e i sospiri. L'onda narra anche altre storie di amori e di guerre in quelle contrade, ma antiche, ignote a loro, ciottoli marmorei nei musei.

"Racconta, Vittorio! Dicci tutta la tua storia; ti crediamo senza le prove di attestati e medaglie. Sul tuo viso si legge la verità dei ricordi e dei fatti, che essi siano scritti o taciuti nei documenti e nel tuo lungo foglio matricolare."

Vittorio aveva accettato di farci quel racconto con ordine, un pomeriggio, sorbendo un caffè. Conoscevamo alcuni episodi di quella storia, appresi occasionalmente durante qualche gita in montagna, quando lui, conoscitore di ogni sentiero e infaticabile raccoglitore di funghi, guidava la nostra comitiva. Ci era parsa una storia straordinaria per i fatti e per l'uomo agile di mente e di corpo che li aveva vissuti, giovane recluta, durante la seconda guerra mondiale.

"Avevo giusto vent'anni... Non ero mai uscito dal paese...–inizia Vittorio con una lieve esitazione, mettendo da una parte i documenti che aveva portato con sé per esser più preciso, dopo quarant'anni, nella narrazione dei fatti– quando nel settembre del '42 partii per Bressanone, arruolato nel IX reggimento di Artiglieria...."

Comincia di lì un lungo viaggio che, dopo una breve tappa al Pireo, lo conduce nelle isole del Dodecanneso. E' a Samos già da alcuni mesi quando, l'otto settembre del '43, arriva la notizia dell'armistizio e del proclama di Badoglio; partecipa anche lui all'arresto dei pochi tedeschi che sono sull'isola. Subito dopo sbarcano gli inglesi: nemici, amici, comunque padroni! Ma si sparge voce che l'isola stia per cadere in mano ai tedeschi. Fuggire! Bisogna fuggire in Turchia; lì di fronte c'è la costa: ottocento metri di mare, un isolotto e le acque turche, la riva e la libertà.

Otto compagni e una zattera: è lì a pochi metri dalla riva. Chi sa nuotare e la prende? Vittorio si tuffa e l'aggancia ad un filo. Chi l'avrà costruita? Sono pochi bidoni vuoti, legati con cavo telefonico e per tolda un pezzo di parquet preso chissà dove. Avanti, presto, su, tutti spingete! Frasche e mani per remi. L'isolotto è doppiato.

Un motore e una raffica: una corvetta, i tedeschi! Ferma! No, dai, forza, arranca...Un'altra raffica e spruzzi di acqua. Ferma, ferma!...Non si può; la zattera va da sola, la corrente ci trascina!...Una raffica ancora e sulla tolda è morte per cinque di loro, due sono feriti gravemente e Vittorio è illeso.

Prigioniero dei tedeschi: 'Italiani traditori, kaput!' Sono duemila come lui, militari sbandati di tutte le armi dell'esercito italiano, sulla nave per Atene; attaccata in mare da due aerei inglesi ma mancata dalle loro bombe. Poi il campo di concentramento di Jacodina presso Nis in Jugoslavia. Otto mesi. Lavoro, percosse, stracci che bollono dentro i bidoni mentre uomini nudi si spidocchiano il pube. E tre tentativi di fuga. Il primo dura poco: Vittorio si affianca a una colonna di soldati bulgari che torna indisturbata in patria, ne indossa la divisa e dopo una notte di marcia raggiunge con loro il confine della Bulgaria. Ma lì viene scoperto dai tedeschi, malmenato e minacciato di morte. Anzi, teme che l'esecuzione sia imminente quando in un prugneto viene spinto avanti dai due tedeschi che lo scortano, come a dirgli: "corri, vattene!" Lui non si volterà indietro per vedere che succede alle sue spalle e non scapperà: sarebbe stata la scorciatoia per la morte. Cammina lento ("se questo è il destino!..." pensa) e va avanti; i due tedeschi non gli sparano ma si affiancano di nuovo a lui, in silenzio.

Anche il secondo tentativo di fuga fallisce, ma il terzo ha successo: mentre lavora alla costruzione di una ferrovia con altri prigionieri, vigilati dai tedeschi col mitra spianato, c'è un'incursione aerea. Vittorio getta il badile e fugge. Si confonde con la popolazione, raggiunge la campagna e un vecchio che ara il suo campo. "Se lo aveste visto non gli davate un soldo!...." dice Vittorio che forse rivive quell'incontro; invece, è un partigiano che lo rifocilla e gli mostra il suo mitragliatore nascosto in una siepe. 'Sve slobodan!' dice; la contrada è libera, è interamente controllata dai partigiani. A un suo fischio compaiono due donne che Vittorio seguirà per ore su impervi sentieri di montagna fino a raggiungere, in una valle, un enorme edificio dove è il comando della brigata partigiana. E' anche un campo di smistamento. Ci sono due o tremila uomini; molti i marinai italiani. Vittorio deve decidere se vuole andare a lavorare o a combattere con i partigiani di Tito. Lui sceglie di combattere e attende l'assegnazione ad una compagnia.

Alla sera si apparta in un canto; è sfinito. Un groppo gli stringe la gola: pensa alla famiglia lontana, a una distanza incommensurabile; a casa sua, al suo paese, agli amici, a Melina! Un groviglio di sentimenti è nel fondo del cuore. E se anche a Pescocostanzo stesse succedendo quel che succede qui? Dopo quello della libertà, il desiderio più forte è quello di tornare a casa.

Prima Armata, seconda divisione, terzo battaglione, quinta compagnia italiana! Arruolato. La comandano due italiani: Carlo di Brescia, commissario politico e l'altro del paese di Mussolini ("mi pare dicesse Forlì, non ricordo").

"Siamo andati a combattere...ho preso parte ai combattimenti per la liberazione di diverse cittadine, tra cui Uzice, Cacak, Bajina Basta, Dren, Sarajevo. Verso Bajina Basta ho incontrato due italiani che portavano le munizioni appresso ai cannoni russi –racconta Vittorio– Pure tu italiano? mi dissero. Eh! pure io, e da dove venite? Dal Don mi risposero. Da allora non li ho visti più".

E' una vita senza requie, di spostamenti continui e di imboscate. Spesso tornando da una missione non si ritrova la compagnia dove si è lasciata: è stata attaccata e si è trasferita in un altro posto. Il contatto è perso e Vittorio rimane isolato, deve cavarsela da solo. Vi sono continui malintesi: come ricordare una parola d'ordine di una lingua sconosciuta, della quale si cominciano appena ad apprendere le prime, elementari parole? "Capitava di spararci contro tra combattenti della stessa parte!"

Ora, durante il racconto, pare di scorgere nel suo volto un antico entusiasmo per l'avventura; vi fu? non glielo chiediamo, sarebbe una domanda sciocca.

Appresa la vicinanza dell'Armata Rossa, Vittorio decide di arruolarcisi: "Mò me ne vado con l'armata rossa e sto meglio; al posto di stare con questi qui, che una volta stai con uno, una volta stai con un altro.... Mò mi arruolo e me ne vado con questi...E invece!... Lì finii di passare i guai miei, perché pure loro, i russi, mi portarono in un campo di concentramento assieme ai tedeschi. Lì, dàgli a interrogarmi e a perquisirmi dalla mattina alla sera per tre giorni!" Lo interrogava una donna e qualche ufficiale comandante, ma i comandanti non si riconoscevano dai soldati, ché erano tutti vestiti allo stesso modo. Ce l'avevano con gli italiani perché erano andati sulla terra loro, a Stalingrado, a bombardarli...Poi si ubriacavano e minacciavano di ucciderlo. Bevevano vodka, ma una vodka speciale col pepe.

Andò a liberarlo un maggiore jugoslavo che disse ai russi che lui, e anche altri che si trovavano lì, erano partigiani e dovevano essere rilasciati.

Vittorio riprende la montagna e l'avventura: "Portaordini, ero. In verità ne avevo viste tante e non avevo paura più di niente e di nessuno e neppure della morte!...Quando arrivavo in un paese spianavo il mitra sul primo che mi capitava e gli chiedevo se c'erano i tedeschi, e se non c'erano che mi portasse dal sindaco o da quello dal quale dovevo andare, o che me lo portasse subito innanzi; io intanto m'appostavo... Quando dovevo raggiungere un posto che non conoscevo (e io non ero di lì, che ne potevo sapere dei posti, di quei paesi?) mettevo sotto col mitra qualcuno che incontravo e quello mi doveva guidare; una volta toccò a una donna gravida di sette mesi, mi faceva pena: 'oštar', gli dissi, 'è duro'; trovami qualcun altro al posto tuo, che ti lascio andare; ma mi rispose 'sve otici' che erano andati via tutti, che non c'era rimasto nessuno; e camminò per quattro o cinque ore innanzi a me!"

I ricordi si moltiplicano: il puzzo ammorbante dell'Armata Rossa, il valore e la ferocia della moltitudine di donne che ne fanno parte; il flusso inesauribile delle truppe di rincalzo, anch'esse prevalentemente costituite da reparti femminili, che colmano subito i vuoti fatti dalla battaglia; l'avanzare impetuoso dei carri russi che schiacciano chiunque –amico o nemico– si trovino avanti: "mettevano tutto sotto, e via!..." La traversata della Drina, che i russi effettuano aggrappati alle code di mucche che spingono avanti e che poi, quasi fossero addestrate, tornano indietro e traghettano altri soldati infagottati, il mitra sulla testa, "che parevano bufali". E gli stracci e i brandelli di pelle di vacca preziosi per fare ciocie, e l'unico paio di scarpe posseduto, preso a un soldato russo morto, e il suo berretto. Gli scontri tra bande diverse –partigiani di Tito, Cetnici, Ustacia, Traci, Nedici– creano il caos. Una condizione di guerra di tutti contro tutti. "Anche le religioni cristiane sono due, cattolica e ortodossa, e raddoppiano le festività: due Pasque, due Capodanni!.."

La confusione è completa. "Certe volte non capivo più niente; né se stavo con uno né se stavo con un altro. Tiravo avanti! –continua Vittorio, il quale ormai ha una sola meta: il suo paese, l'Italia– Andavo dove capitava; mò dovevo seguire uno e mò un altro; e certe volte, poi, lasciavo tutti e buonanotte!" La voce metallica di Vittorio, il suo discorrere sciolto, che denunciano la vivezza di quei ricordi, sono ora accompagnati da un'espressione esitante dello sguardo, da un volger d'occhi come di chi debba orientarsi; riemergono, forse, in lui l'incertezza e l'ansia del giovane uomo di allora, straniato dal suo ambiente, travolto da eventi spesse volte a lui del tutto oscuri.

Ma ora è tra amici, nella camera si spande l'aroma del caffè; lo sorbisce piano e ci guarda. Forse vorrebbe chiederci le nostre impressioni sul suo racconto, ma non lo fa e continua con i ricordi; meno crudi, questi, perché gli chiediamo se mai nessuno lo avesse aiutato."L'aiuto io l'ho anche avuto, sì. Mi hanno dato da mangiare, certe volte. A una Pasqua, passò un treno mentre noi lavoravamo a riparare la ferrovia e la gente ci gettò dai finestrini delle pagnotte, e dentro c'erano le uova. Un'altra volta che ero affamato vidi passare alcuni soldati russi che portavano dei bidoni di roba calda, deve essere qualche buona zuppa, pensai; mi avvicinai con una mezza zucca vuota, ché altro recipiente non ce lo avevo: 'Ja san gladan' gli dissi, 'io ho fame'; loro affondarono la mezza zucca nel bidone e me la ridettero piena; era polenta, "kacamak" la chiamano. Una donna, una sera –una ragazza– stava facendo la calza, lavorò tutta la notte per finire il paio e darmelo al mattino."

Il ricordo di episodi di solidarietà umana attenua la tensione narrativa, l'espressione del suo volto torna quella abituale: serena e aperta. Poi incalzano altri ricordi, i più amari: "A Belgrado, che ormai era stata liberata ed era in mano alle truppe di Tito, mentre attraversavo una strada e portavo un dispaccio (ché io, come ho detto, il portaordini ho fatto nella mia vita partigiana) fui colpito da un cecchino: una raffica di mitra alle gambe mi atterrò. Fui raccolto e portato al comando russo, lì mi interrogarono per tanto tempo: chi ero, chi non ero, che facevo in quel posto, da dove mi avevano sparato....e io mi stavo dissanguando, ma a loro non gliene importava niente. Finché, non avendo altro da chiedermi, mi portarono in un ospedale di Belgrado. Dei medici russi mi hanno operato e curato. Poi fui trasferito all'ospedale di Pancevo e ci sono rimasto sette mesi. Lì c'erano anche dei maestri e ci insegnavano la lingua e io incominciai a parlarla bene, quasi meglio dell'italiano. Ma pure questo fatto finì per riuscirmi dannoso! In quell'ospedale si facevano delle conferenze e io ci andavo ben volentieri, anzi mi ci portavano in braccio, come un bambino, visto che le gambe erano fuori uso per le ferite e c'era una specie di griglia che le reggeva. Quelli che parlavano dicevano tutti i giorni che Trieste era stata occupata dai fascisti. Un mio amico di Bitonto mi spiegò allora (perché io di scuole non ne ho fatte) che quando fu occupata Trieste i fascisti non esistevano. Lui la lingua la capiva ma non riusciva a parlarla bene. Il giorno appresso quando alla conferenza chiesero chi voleva parlare, parlo io, dissi subito, e al commissario politico dissi: non è vero quello che avete detto, che i fascisti hanno occupato Trieste, perché a quell'epoca i fascisti non esistevano!"

Vittorio maledice ancora quel momento: dopo pochi minuti che era stato riportato a letto alla fine dell'assemblea, arrivano due soldati al suo capezzale e gli ordinano di seguirli; lui non capisce e pensa in un primo momento ad uno scherzo, ma quelli insistono: 'mora', 'per forza', dicono; deve per forza andare con loro! E, siccome lui non può camminare, lo portano in braccio in un edificio vicino, dove, senza nessuna spiegazione lo scaraventano in un cella sotterranea. E' un pozzo di un metro per un metro e mezzo di superficie, profondo tre o quattro metri. Lì rimane per tre giorni e gli calano solo del pane e dell'acqua con una corda. Ne esce con i vermi nelle ferite. Vittorio ricorda l'ammonimento, o piuttosto l'avvertimento affettuoso, che quando uscì da quel buco gli dette una professoressa, moglie di un medico di Ancona: "Italiano, cosa hai fatto?!" E, senza ascoltare le ragioni che Vittorio voleva esporre, fatte allontanare le persone presenti con un pretesto: "Zitto: cutati!" gli ordinò, e ancora, quando gli parve che Vittorio volesse in qualche modo giustificarsi: "cutati! –ripeté categorica– non parlare più, sennò tu finisci un'altra volta nel pozzo!"

Quando è in grado di camminare Vittorio dovrebbe raggiungere il suo reparto che è ai confini con l'Ungheria. Ma il desiderio di tornare a casa è ormai impellente. Incontrerà ancora ostacoli insormontabili e piccoli slanci di generosità che saranno però determinanti per la realizzazione del suo piano; entrerà in giochi clandestini di cui ignora il meccanismo. Una busta gialla vuota, con un piccolo contrassegno, avuta con fare misterioso e recapitata senza dir parola a 'Giovanna', darà l'avvio alla procedura di rimpatrio. Per tornare in Italia vorrebbe avere una divisa più decente, e si reca a chiederla ad una rappresentanza anglo-americana che è a Belgrado, ma non riesce ad averla e, salito nell'aeroporto di quella città su un aereo militare, raggiunge Bari con una divisa iugoslava di tela di sacco, lacera, e un berretto con la stella rossa in fronte. E' l'agosto del 1945.

Vittorio termina il suo racconto. Non pare né orgoglioso di quel suo passato, nel quale certo vi furono audacia e coraggio, né compiaciuto dell'attenzione che gli ascoltatori gli hanno prestato. Quell'avventura per lui resta tale; non è epopea. Se meraviglia v'è, è quella che esprime a sé stesso durante la narrazione dei fatti con involontarie esclamazioni: "Mannaggia Giudaccio, io ne dovevo vedere di tutti i colori!" Lieto, secondo la sua naturale, innata disponibilità verso gli altri, di aver fatto con quella narrazione, una cosa gradita agli amici, raccoglie i documenti che aveva portato con sé e li mette in una busta. Tra essi c'è un attestato e una medaglia che nel 1971 il maresciallo Tito gli conferisce per aver partecipato alla lotta di liberazione del popolo jugoslavo.

Il giorno appresso ci manda un cestino di funghi.

Dieci anni dopo questo racconto Vittorio, che è sempre il primo a raggiungere la vetta di un monte e il più gioviale nella compagnia, è in un pullman che porta a casa delle comitive abruzzesi che tornano da un pellegrinaggio; anche il Papa c'era stato. Nel torpedone le luci sono azzurrate, molti dormono; coppie di comari parlano fitto ed ogni tanto ridono, chetamente, per non disturbare; due fidanzati si guardano negli occhi e dei ragazzi nel sedile di fondo cavano da una chitarra note in sordina e intonano sommessi motivi di canzoni. Il pullman supera il Piano delle Cinque Miglia e si ferma; oltre la strada c'è il parcheggio. Delle auto attendono la comitiva di Pescocostanzo. Vittorio scende con gli altri e attraversa la strada. Il rombo di un motore e un cozzo. Un corpo è sull'asfalto. Il filo della vita per Vittorio è reciso.

Noi ricordiamo il suo volto ridente, ancora mezzo secolo dopo, al pensiero di Melina, la ragazza più bella di Samos.

CHI SA

 

"C'è una malata nuova che ha voluto il primo appuntamento della giornata" disse l'infermiera a Giulio che, indossato con gesto rapido il camice, stava formando un numero al telefono, "e ci sono delle telefonate prima delle altre visite; adesso però faccio passare questa signora.E' accompagnata dal marito e mi sembra che stia veramente male...(Lui invece pare un tipo scorbutico!)" Commentò l'infermiera. Giulio posò il ricevitore. "Va bene, falli passare", rispose, si fidava del suo giudizio; a volte gli erano capitati nello studio individui addirittura con un infarto in atto; d'altra parte per telefonare a Clelia aveva bisogno di un momento di quiete.

Nella stanza entrò una coppia attempata che mostrava di appartenere ad uno strato sociale ed economico elevato; il marito volse lo sguardo intorno scrutando l'arredo lindo e funzionale di quello studio che nulla, però, concedeva al lusso. Quasi avesse voluto far rilevare di aver valutato la semplicità dell'ambiente, disse che loro erano lì per consiglio di una amica della moglie. Le aveva parlato tanto bene del suo medico, e disse il nome di una affezionata paziente di Giulio, che la moglie aveva voluto consultarlo. Lei comunque era stata già sottoposta ad approfonditi controlli ("veri e propri check up" ribadì) in varie cliniche di prestigio; avevano con loro i risultati degli esami più recenti. Nel dir cosi mostrò una busta rigonfia di referti e di radiografie.

"Vede, Professore..." iniziò la moglie, la quale mostrava di avere a noia i preamboli del marito e di voler venire subito al sodo dei suoi disturbi.

"Dottore!" corresse Giulio che andava già esaminando con lo sguardo l'aspetto sofferente della donna. "Dottore..." riprese lei, ma fu l'unica volta che lo chiamò così; il titolo di professore le era evidentemente divenuto abituale nei suoi incontri con i medici. La storia della malattia che la signora andava narrando all'inizio fu continuamente interrotta dal marito che riteneva di doverne rettificare dei particolari, con stizza reciproca dei coniugi. Poi Giulio pregò il marito di lasciar parlare la moglie, avrebbe ascoltato dopo le sue precisazioni. Aveva fretta di sbrigarsi per via di quella telefonata a Clelia ed anche per togliersi d'innanzi l'odioso marito; ma doveva dare alla malata il tempo che le occorreva perché fosse certa di aver fatto al medico una narrazione completa dei suoi disturbi. Quando quella terminò, le chiese conferma di uno o due particolari che erano gli unici a interessarlo, le fece delle domande che esigevano una risposta precisa e le disse di spogliarsi e di adagiarsi sul lettino. Si era convinto che un minuto esame obiettivo della paziente gli avrebbe consentito di orientarsi nella sua malattia e, forse, di individuarne il punto critico. Quello era il momento più bello del suo lavoro: la natura poneva davanti ai suoi occhi un fenomeno, dei sintomi, degli indizi spesso contraddittori e ingannevoli e lui doveva intuire gli intimi meccanismi, gli intrichi fisiopatologici che si concludevano nella malattia; doveva trovarne la causa e, se possibile, il rimedio. Allora acuiva i suoi cinque sensi, tastava a lungo il polso del malato, il suo orecchio selezionava toni, soffi, rantoli con i loro infiniti caratteri acustici. Gli accertamenti, le analisi, l'impiego delle tecnologie più avanzate e sofisticate, venivano dopo, guidate da quel suo esame, come prolungamento dei suoi sensi, in risposta a tappe del suo ragionamento clinico; a conferma o smentita delle sue intuizioni diagnostiche. Quel lavoro gli era piaciuto fin dall'inizio proprio perché fatto di cultura e di arte, di pensiero critico e di manualità, costantemente arricchito dal progresso scientifico e dalla spiritualità del rapporto col dolore umano; talora non privo del raro frutto della gratitudine genuina. Era orgoglioso di rispettare così, pur dopo molti anni di esercizio professionale, i canoni della metodologia clinica proclamata nelle aule universitarie agli studenti di medicina fin dai primi anni dei loro corsi. Ma proprio per questo cominciava a sentirsi un isolato, un solitario. Ormai la maggior parte dei suoi colleghi quando aveva di fronte un nuovo malato, voleva innanzitutto veder gli esami, le analisi e limitava il più possibile, e spesso evitava addirittura, il diretto e personale contatto con esso. Presto, pensava Giulio, "tastare il polso" rimarrà solo un modo di dire più o meno arcaico e il rapporto della locuzione con la medicina si troverà solo nei dizionari etimologici. Tuttavia per nulla al mondo avrebbe cambiato il suo metodo di lavoro. La nuova paziente fu quindi minuziosamente osservata; Giulio le ordinò di tossire, di respirare profondamente, di far dei movimenti a occhi chiusi, evocò ed esaminò riflessi. Alla fine della visita, quando ritenne di aver formulato un suo orientamento diagnostico, disse alla signora di rivestirsi e prese visione degli esami che il marito aveva mostrati all'inizio; non vi trovò, peraltro, pur tra i tanti eseguiti, l'unico che a lui interessava. Udì, intanto che la signora faceva notare al marito che quella era stata la prima volta che l'avevano sottoposta ad una visita completa e che le era stata data la possibilità di raccontare "quasi" tutta la storia della sua malattia. Giulio prescrisse l'esame che riteneva necessario e, in attesa del risultato, precisò quali norme igieniche la signora doveva rispettare; perché, data la natura della malattia, era più da quelle che dalla ingestione di farmaci che la signora avrebbe potuto trarre giovamento. A questo punto il marito, quasi avesse voluto prendersi una sorta di rivincita nei confronti del medico e della moglie esclamò: "Ma io m'aspettavo la prescrizione di una terapia che avesse reso subito le forze a mia moglie, migliorato il suo stato fisico!...Costi quel che costi!" aggiunse. Giulio gli rispose con freddezza che non sempre le leggi biologiche fanno distinzione tra ricchi e poveri e congedò la coppia. Suonò, quindi, all'infermiera per dirle di attendere la fine di una sua telefonata prima di far entrare il successivo paziente; ma quando quella venne gli riferì che aveva telefonato due volte per lui la signora Clelia e la seconda per dirgli che, dovendo uscir di casa in fretta, l'appuntamento telefonico che avevano era rinviato. "Allora avanti l'altro paziente!" ordinò contrariato.

* * *

Clelia dominava da molti giorni i pensieri di Giulio; la vedeva costantemente innanzi a sé in quella strana, surreale corporeità che la memoria dei sensi può renderci di una persona lontana: gli pareva di poterle stringere la mano, avvertendo il contatto della sua pelle morbida e fresca; ne udiva la voce chiara ed a momenti appoggiata a venature di complicità e di mistero; ne sentiva il tenuissimo profumo. Chi era, che cosa rappresentava già per lui quella donna che, ne era certo, per prima lo aveva cercato, per prima gli aveva lanciato un impercettibile, ma sicuro segnale d'intesa quando si erano appena conosciuti durante un affollato e anonimo ricevimento? Quella donna, che nelle forme racchiudeva il suo ideale di bellezza femminile, aveva evocato subito un ricordo lontano ma non perso nella sua memoria: quello di una giovane ed elegante signora che molti anni prima, quando lavorava in una clinica di un nuovo quartiere della sua città, aveva più volte osservato; soave nota di colore nel grigio della periferia metropolitana. Allora non aveva potuto, né forse voluto conoscerla, quasi per non rompere una sorta di lieve incantesimo; poi il tempo era passato e lui non era più andato in quella clinica. Ma il ricordo di uno sguardo incrociato con lei durante la sosta ad un semaforo, gli era rimasto vivo ed attuale. Forse era stata la perfetta somiglianza tra quelle due figure ad aver acceso la sua fantasia; o quella donna affascinante che aveva da poco conosciuto era la stessa di allora? Sette o otto anni cosa possono togliere ad una giovane e bella donna, o non piuttosto aggiungerle di fascino e di mistero? Forse una ascesa sociale l'aveva condotta dal suburbio ai salotti dei quartieri alti, forse anche lei aveva in quel quartiere un lavoro o un amante. Ma di questo, ora, cosa gli importava? Lo interessava, invece, quel che in lui stava accadendo! La trascorsa vita sentimentale gli era parsa d'un tratto vuota e scialba, fatta di innammoramenti tiepidi, di brevi interludi, di schermaglie amorose nelle quali s'era perso nel render colpo su colpo, nel ferire ed umiliare per vendicarsi quando una sorta di crudeltà si sostituisce al rapporto d'amore in declino. Tutto ciò con Clelia era semplicemente inimmaginabile! Ora aveva innanzi un labirinto di pensieri e di emozioni che, se non vi si fosse smarrito dentro, metteva capo solo a due opposte uscite: quella di una cocente delusione, che alla sua età forse non avrebbe sopportato e quella della gioia radiosa, della unione completa tante volte pensata, agognata e mai raggiunta. In essa nulla sarebbe esistito senza amore e solo nell'idillio di un amore appassionato sarebbero arsi desiderio e sensualità. E neppure il tempo passato prima di quell'unione sarebbe stato del tutto perso per loro, ché nell'intimità degli amplessi avrebbero rivissuto e congiunto anche gli antichi, personali ricordi.

Nelle precedenti fugaci occasioni d'incontro l'emozione aveva impedito a Giulio di esprimere a Clelia, con frasi concise, la piena dei suoi sentimenti e l'urgenza che aveva; ma si era sentito partecipe con lei di un'intesa esclusiva e profonda che avvolgeva entrambi in una sorta di spirale vertiginosa, lieve e struggente. Doveva incontrarla di nuovo, presto! Invece aveva di fronte a se quattro o cinque giorni durante i quali sarebbe stato difficile far coincidere il proprio tempo libero da impegni già presi con quello di Clelia. Tra l'altro, gli era parsa anche lei molto occupata. Per il giorno successivo era fissata una delle sedute conclusive dei lavori della Commissione di cui lui faceva parte e per il fine settimana doveva recarsi a Pescocostanzo; l'aveva promesso al suo amico Gregorio quando aveva ricevuto una sua strana telefonata.

* * *

I Commissari erano seduti nei seggioloni messi tutt'intorno ad un immenso tavolo ovale di legno scuro e lustro con la rosa dei venti intarsiata al centro; a capo del tavolo il Presidente assiso sul seggiolone d'onore, dalla spalliera imponente di cuoio con impressioni d'oro. Giulio, che di solito occupava uno dei posti che rimanevano vuoti dopo che gli altri Commissari si erano seduti, cercando ognuno di essere vicino il più possibile al Presidente, quella volta fu attento ad occupare lui uno di quegli ambìti scranni. In verità, in un primo momento aveva pensato di infischiarsene di quella Commissione. Costituita, a quanto era scritto nella lettera di convocazione, "per studiare forme di prevenzione e cura" di alcune malattie di cosiddetta rilevanza sociale, gli si era tosto rivelata per quel che era: un pretesto per creare e distribuire Direzioni e Primariati. Poi, malgrado la perdita di tempo che gliene sarebbe certamente derivata, bando all'egoismo, aveva deciso di rimanere: forse poteva riuscirgli di far qualcosa che tornasse di concreta utilità anche per gli ammalati. Non disperava, infatti, di ottenere il consenso del Presidente quando avrebbe enunciato le proposte degli interventi che con grande impegno aveva elaborato.

L'autorità del Presidente sugli altri membri della Commissione era evidente: senza alterare l'espressione composita del suo volto, sempre atteggiato a severa consapevolezza, moderava con efficacia immediata i toni della contese che sorgevano tra i Commissari per la spartizione dei futuri incarichi e trovava soluzioni di compromesso accettate senza riserve dai contendenti. Egli era membro di un Alto Granconsiglio Sanitario, era al culmine della carriera accademica, della fama aurifera di grande clinico ed anche della sua vita per una malattia mortale di cui pure aveva coscienza. Per questi motivi Giulio riteneva di poter suscitare in lui almeno un moto postremo di umana solidarietà perorando non un suo personale interesse, ma quello di anonimi ammalati.

Durante la riunione chiese la parola nel momento che gli parve più opportuno e parlò rivolgendosi direttamente a lui; enunciò in modo schematico e chiaro le sue proposte e fu anche esplicito nel dimostrare l'inefficacia per gli ammalati dei provvedimenti fin lì previsti se tal quali fossero andati ad effetto. Attese quindi, nel silenzio ostile che gli si era creato intorno, la risposta del Presidente.

Vide allora il suo sguardo glauco, che all'inizio s'era posato su di lui benevolo, appannarsi per una nube di sospetto, seguita tosto da un'espressione di incredulità e di stupore: "Ma lei è un idealista!" esclamò infine, e non aggiunse altro. Nella sua voce Giulio colse una nota di malcelata ironia. Il Presidente lo fissò ancora un momento, incuriosito, come per accertarsi dell'esattezza del suo giudizio; quindi, di nuovo consapevole e severo tornò a moderare la contesa che era sorta nel frattempo per l'assegnazione di un primariato all'una o all'altra di due aree territoriali limitrofe, rispettivamente di diversa influenza dei due contendenti.

All'esclamazione del Presidente, Giulio aveva avvertito dentro di sé un urto violento, come fosse andato a dar di cozzo contro un muro; una sensazione fisica di dolore, di malessere. Si alzò e uscì dall'aula in silenzio come uno che, durante un banchetto, colto da improvvisa nausea, cerchi di allontanarsene senza esser visto.

* * *

La telefonata che aveva ricevuto da Gregorio tre giorni prima era stata laconica: "Vieni a trovarmi –gli aveva detto– mi servi come medico e forse ancora di più come cura!" Non aveva voluto aggiungere altro; la sfumatura di ansia che Giulio aveva colto nella sua voce era scomparsa quando aveva promesso di andarlo a trovare presto. "Allora d'accordo –aveva conchiuso Gregorio– d'altro canto sono sei mesi che non ti si vede qui a Pesco!" Poi aveva riagganciato.

Ora Giulio si stava recando a quell'appuntamento. Guidava nell'autostrada deserta per la partita giocata dalla 'nazionale'; immaginava i milioni di occhi fissi sugli schermi televisivi, i nervi tesi, pronto l'urlo di goooal! Poi, in caso di vittoria, la delirante esplosione di un nazionalismo che lo faceva sentire d'un tratto straniero, apolide. Aveva una guida distesa, quasi meccanica; il suo pensiero era altrove. S'era accomiatato da poco dall'ultimo paziente di quella giornata, il cavalier Rossatti Antonio ("quarant'anni di onorato servizio nella Pubblica Amministrazione!") al quale s'era risolto a prescrivere un difficile intervento chirurgico. Lo aveva fatto con suadente decisione, ma le parole del malato gli tornavano insistenti all'orecchio: "Eh già, quelli sono chirurghi e vogliono sempre tagliare!...Ma io sento prima Lei, mi consiglio con Lei e farò solo quello che Lei mi dice. Sennò non mi faccio neanche toccare! Anche mia figlia, sa', la pensa cosi!"

Ecco, ancora una volta il bandolo di una vita che stava per smarrirsi era nelle sue mani. Una vita di nervi e di sangue nella quale ora si incarnava la figura allampanata del cavaliere, con le sue quattro sigarette fumate di nascosto, col suo impegno a non impensierire la figlia, "... che poverina lavora e manda avanti da sola la casa, eppure in ufficio la portano tutti in palmo di mano..." e con quant'altro, poco in verità, rendeva concreta la sua presenza in questo mondo.

Che lui, Giulio, avesse fatto quanto di meglio non avrebbe potuto per la salute di quell'uomo, poco serviva a rasserenargli lo spirito lì, chiuso nell'abitacolo della sua auto. La diagnosi giusta e tempestiva, la prescrizione di sottoporsi al rischioso intervento chirurgico fatta solo dopo averla meditata e rimeditata, aver preso consiglio, aver dovuto ammettere che non vi era nessun'altra possibilità di cura per quel malanno, potevano valere a soddisfarlo quando era con il camice bianco indosso, dietro la sua scrivania, tra diagrammi e radiografie che parlavano chiaro. Ora non riusciva ad allontanare il pensiero che, in caso di insuccesso dell'intervento, non sarebbero state certo le parole con le quali il chirurgo gliene avrebbe spiegate la cause tecniche a cancellargli l'idea che quell'uomo lasciato al suo destino avrebbe potuto vivere ancora chissà quanti altri anni. Nel caso contrario, ecco, la immaginava come se la stesse vivendo, la scena dell'improvviso malessere, del dolore atroce all'addome del cavaliere e della inutile chiamata d'urgenza.

Quel caso, insomma, nel quale stavolta sul crinale in bilico era la vita di un uomo, pur definito ai suoi occhi in ogni particolare e in ogni premessa, del quale lui stesso era stato uno degli elementi determinanti, di lì a poco si sarebbe risolto in una delle due opposte probabilità e di esse rimaneva solo arbitro il fato! A che cosa erano serviti il suo impegno, il suo affanno per la sorte di quell'uomo? Quasi tutto inutile: come nella Commissione?

Quella domanda che Giulio s'era rivolto quasi inconsapevolmente, dette l'avvio nella sua mente ad una vera cascata di interrogativi e di dubbi. In questo caso, poi, a cominciare proprio da quelli più astratti e sterili: quelli metafisici, sul destino degli uomini, come il "chi siamo, donde veniamo, dove andiamo", e così via. Interrogativi e dubbi ai quali lui aveva deciso da tempo che dovessero rispondere, dovessero scioglierli o annodarcisi insieme, i filosofi, non certo lui che aveva sempre inteso e intendeva rimanere con i piedi sulla terra; non era affar suo quello. Anche il cavaliere, allora, al suo destino!

Ma questo era solo un bel dire! Ormai quell'incauta domanda aveva inferto un altro colpo di ariete alla diga che lui cercava ogni giorno di erigere nella sua mente contro il dilagare dei dubbi, impiegando i blocchi solidi e in genere irremovibili del rinvio a miglior tempo di decisioni e giudizi definitivi e la malta tenace delle buone intenzioni.

In verità, era da tempo che Giulio ravvisava dappertutto motivi di perplessità e di dubbio, anche se la maggior parte di essi prendeva origine dall'ambiente del suo lavoro, da quella sua particolare professione. A volte sentiva il mondo intero, tutta la società che gli era intorno, come una sinuosa matassa di ambiguità nella quale lui era impigliato e non riusciva a districarsi. In quei momenti anche le novità di natura scientifica, tecnologica, i mutamenti sociali che parevano un autentico progresso del genere umano sulla strada della civiltà e del benessere, gli mostravano, quasi fosse un sonoro sberleffo della storia, il rovescio della medaglia, la loro doppia faccia quali probabili cause non già attualidi catastrofi di ogni genere: ecologiche, sociali, morali, potenzialmente di dimensioni planetarie. La vicenda storica contemporanea gli appariva, allora, come la fase intermedia di una reazione biochimica che avrebbe dovuto condurre alla sintesi di nuove e più progredite forme di socialità se in essa, in quel momento, non fossero stati per prevalere gli enzimi, i catalizzatori della putrefazione. Perché scandagliare gli abissi, si chiedeva allora, perché non respingere e allontanare da sé quelle preoccupazioni che, in fondo, personalmente ora non lo incalzavano? Ma sarebbe poi riuscito a munire, oltre che i suoi beni, anche la sua mente e la sua anima di grate, di cancelli, di porte blindate e di sistemi d'allarme?

Forse avrebbe potuto distrarre la propria attenzione, sopire la curiosità istintiva e le nuove passioni nascenti nell'animo suo; questa condotta poteva lasciarlo tranquillo ancora a lungo; ma era quella che lentamente, inavvertitamente lo avrebbe condotto alla rinuncia di quanto è divenire, movimento, vita. Quando quel Professore, con ironia, gli aveva dato dell'idealista, non aveva voluto forse dirgli che era uno sciocco, un semplicione che non avrebbe mai imparato a vivere; perché, se solo ne fosse stato capace, avrebbe preso ad esempio lui, che aveva attraversato la vita da dominatore e neppure l'idea della morte ora affievoliva il suo spirito di conquista; anzi aumentava il valore del tempo che gli restava innanzi ed il sapore delle prede che ancora avrebbe strappato alla vita! Sarebbe stato capace lui, però, di indossare quella maschera di indifferenza, o di vero cinismo, per vivere senza scrupoli, senza affanno, senza guardare più in alto e, soprattutto, senza guardare più in basso? Proprio lui che pensava di cogliere nell'assenza costante di un qualsiasi riflesso di gioia pura nello sguardo di un uomo, il sintomo della malattia del suo animo sociale, della quale cinismo e disimpegno non erano che sequele morbose? Lui che aveva sempre rifiutato l'idea che l'ago della sua bussola spirituale restasse fermo su un solo punto cardinale, quello posto al centro di un Io immiserito, gretto e spaurito?

Chi era lui, però, per giudicare gli altri? da quali certezze muovevano i suoi pensieri? Quando si fosse tolto di dosso l'abito del professionista, quello borghese delle convenzioni sociali, quando fosse rimasto nudo al suo stesso sguardo indagatore, Giulio non scorgeva nell'animo suo una pur iniziale certezza interiore, un minuscolo lembo di terra ferma emergente dalle sabbie mobili del dubbio sul quale costruire un suo edificio di propositi e di speranze. Un edificio da rimaneggiare e adattare alle mutevoli circostanze della vita, da abbattere e riedificare, se occorresse, ma che aveva sempre bisogno di fondamenta stabili da cui innalzarsi. Proprio perché gli mancava questa iniziale certezza il suo comportamento di fronte alla realtà quotidiana era incerto; per questo motivo gli rimaneva a volte incompiuta una frase sulle labbra, sospeso il giudizio anche su un evento banale! A fermarlo e dissuaderlo erano le due opposte, antitetiche visioni che di esso nascevano in lui; entrambe buie o luminose, entusiasmanti o deprimenti, entrambe vere o piuttosto false.

Ma ora v'era un punto sul quale doveva far chiarezza: era e intendeva restare un "idealista"; quel sentimento aveva profonde radici nell'animo suo, o quella era una maschera di ipocrisia che indossava per una recita con se stesso? forse lui era soltanto un pusillanime; forse avrebbe voluto anche lui carpire comunque i suoi attimi di piacere senza scrupoli, purché gli altri non lo vedessero, non lo cogliessero sul fatto; soprattutto non lo giudicassero! A questo pensiero, che ormai dominava la mente di Giulio, una caleidoscopica visione della sua vita prendeva il posto di quello spiraglio di luce che lui avrebbe voluto si aprisse nella sua interiorità; essa rimaneva invece al buio, al fondo, ben riparata da ogni sguardo indagatore. Un moto ondoso di percezioni contraddittorie gli lambiva le circonvoluzioni del cervello e gli pareva eroso il filo che teneva insieme i grani del suo pensiero, i quali come chicchi di un monile spezzato su di un piano ineguale, gli pareva rotolassero secondo le diverse inclinazioni del suo umore instabile.

* * *

"Ascolta prima me, poi parlerai tu. Ti prego lasciami dire tutto fino alla fine!" disse Gregorio sedendosi dall'altra parte della scrivania, quando furono soli nel suo studio. Giulio, appena arrivato a Pescocostanzo, era andato a casa di Gregorio. Ricordava l'amico, professore di latino e greco da poco in pensione, abitualmente sereno, di buon umore. Anche se molto più anziano di lui era un ottimo camminatore; avevano in comune la passione per la montagna e facevano volentieri insieme delle escursioni sulle vette più alte di quelle contrade. Cercavano di raggiungerle all'alba per godere lo spettacolo che chiamavano "la creazione del mondo", quando la luce guadagna lentamente sempre più ampi orizzonti, rade i promontori e si riflette in mille iridescenze sulla rugiada che imperla i fili dell'erba e il lavoro notturno dei ragni teso su quegli steli; penetra nelle gole boscose ritmando la diversa vita del falco e dell'allocco e si ode distinto il canto mattutino delle coturnici tra le rocce. Ora sebbene il volto di Gregorio fosse oltre il cerchio luminoso della lampada da tavolo, Giulio vi lesse un'espressione insolita di austera tristezza.

"Dopo aver avvertito per un certo tempo strani disturbi –riprese Gregorio– ho fatto gli esami che ora intendo mostrarti..." Giulio stava istintivamente per chiedergli quali fossero questi disturbi non riuscendo a sottrarsi a quella sua necessità di precisione, quando era in campo il suo lavoro, ma si trattenne, aveva appena promesso all'amico di lasciarlo parlare. Quello infatti, come gli avesse letto nel pensiero, disse: "Non sono i disturbi attuali che mi interessano; di essi, se vuoi, parleremo dopo. Guarda invece questi referti e poi ascoltami ancora, ti prego, in silenzio".

Giulio guardò controluce una radiografia e lesse un esame istologico; lasciavano poco adito a dubbi sulla gravità della malattia del suo amico. Sentì di impallidire. Sebbene fosse abituato a dissimulare i propri sentimenti in simili circostanze, dovette sforzarsi per controllare l'espressione del volto. Quando volse lo sguardo a Gregorio, quello continuò: "Prognosi infausta, forse a breve termine..." Ripete una frase letta in qualche libro di medicina, pensò Giulio. "Ma nemmeno questo mi interessa –aggiunse Gregorio– mi interessa, invece, quel che è scritto qui!" Aprì un libro ad un segnale fatto con una strisciolina di carta e lesse poche righe: descrivevano il quadro terminale della sua malattia nella quale figurava tra l'altro la possibilità di atroci dolori.

"Non mi ero mai interessato al problema dell'eutanasia, ma ora come vedi ci sono costretto! Voglio il tuo parere, di medico e di amico. Io non intendo sopportare inutili sofferenze, mentre non ho nessun timore della morte. Non ricordo più quante volte essa mi è stata vicina in guerra. Non te ne ho mai parlato prima, anche se ci conosciamo da tanti anni, perché non mi piace parlare di queste cose, ma ora consentimelo; devi esser ben certo di questa mia affermazione. Ti renderai anche conto che, in un certo senso, sono già vissuto quasi mezzo secolo di più di quanto dovevo!" Concise frasi di Gregorio fecero scorrere allora innanzi agli occhi di Giulio, il film di un naufragio durante il quale il suo amico fu sul punto di essere accoltellato mentre con la pistola in pugno cercava di regolare il caotico abbandono della nave silurata; le immagini di uomini in preda al terrore che gettandosi in mare restavano trafitti lungo le murate dalle lamiere contorte e squarciate dalle esplosioni; quelle di gente colpita mentre tentava di salire su un battello già gremito di naufraghi; quelle della intera notte trascorsa da lui aggrappato ad un relitto, tra chiazze di nafta in fiamme, nelle acque gelide che gli avevano intirizzito le membra, sicché, allo stremo delle forze –volle precisargli l'amico– poté farsi il segno della croce solo con la lingua, come raccomandava sua nonna a chi, in punto di morte, non potesse segnarsi in altro modo. E ancora altri fatti, riferì Gregorio, nei quali la morte lo aveva lambito, come quando una voce disse ai barellieri che lo stavano raccogliendo da un mucchio di feriti e di cadaveri: "Quello è inutile prenderlo, è già morto!" Poi Gregorio tacque, fissò intensamente Giulio, "Mi aiuterai?" disse e si alzò in piedi, il busto eretto e fermo, come in attesa di un verdetto.

Quel breve racconto aveva dato a Giulio il tempo di trovare le parole, o meglio, di far sì che il suo sentimento di profonda amicizia e la sua commozione si trasformassero in parole.

"Divinum est humanum sedare dolorem! –disse con studiata calma– Tu, latinista, mi capisci. E' dal tempo di Ippocrate che il medico sa che questo è il suo primo dovere. Se non può guarire la malattia deve lenirne le sofferenze. Lascia alla televisione le diatribe e le querimonie sull'eutanasia e l'accanimento terapeutico; sono problemi per i tecnici della salute, non per il medico della persona umana! Se sarà necessario ti sarò vicino, te lo prometto". Gli occhi di Gregorio si illuminarono di autentica gioia, come fosse guarito da un male peggiore di quello che gli minava il corpo; andò incontro all'amico e lo abbracciò. Giulio poi disse a Gregorio che la "prognosi" è solo un pronostico che può essere errato sia nel bene che nel male; che ha un mero valore statistico, non applicabile acriticamente al singolo caso, tanto più che di malati non ve ne sono due uguali, anche quando hanno la stessa malattia. Ma Gregorio parve ascoltarlo solo per cortesia; il suo volto era tornato quello di sempre.

* * *

Quell'incontro con Gregorio aveva turbato l'animo di Giulio, eppure in un certo senso lo aveva sollevato da una interiore gravezza; s'era sentito d'un tratto dall'altra parte del muro oltre il quale erano il Presidente della Commissione e i suoi accoliti. Andando a casa sua attraversò il paese immerso nel silenzio assoluto della notte; le sagome dei bassi edifici con le gronde sporgenti degli antichi tetti disegnavano squarci di cielo profondo e stellato: la solidarietà umana era parte di quella eterna armonia e mai fu in lui così risonante come nel silenzio di quella notte. Vennero allora alla sua memoria fatti che avevano lasciato un'impronta nel suo animo e nella sua personalità, sensazioni nette eppure estranee ad ogni raziocinio, lontane soprattutto da ogni logica di calcolo e di profitto; emozioni, messaggi umani non esprimibili col nudo significato della parole, né con la sintassi delle frasi scritte: quei messaggi che da sempre esprimono tutto l'odio e tutto l'amore degli uomini. Gli tornavano così alla mente, come sequenze di un film surreale di Bunuel, persone ed ambienti che aveva conosciuto nei primi anni della sua professione: la penombra degli interminabili corridoi del Policlinico durante le sue prime notti di medico di guardia; le corsie dei vecchi ospedali romani che parevano stive di enormi navi col loro carico di lettucci di dolore e la prua volta all'ignoto; lo sguardo di terrore e di ansia del malato grave giacente e quello severo delle ieratiche figure di santi e di papi che lo sovrastavano dagli affreschi spesso esistenti su quelle antiche mura. Pareva volessero rammentargli la sua pochezza di fronte all'immensità del dolore umano e lo smisurato impegno da lui ormai già assunto. Riavvolgendo ora la matassa del tempo, cosa restava di quelle speranze e di quei timori, s'erano dilavati e cancellati come inchiostro su un foglio di carta bagnata? Quando fu a casa la catena dei ricordi, maglia dopo maglia si allungò nel tempo recando ancor più antichi messaggi. Dentro ogni uomo c'è una storia, personale, unita a lui come la sua ombra, non scritta da lui, ma scritta in lui a sua insaputa, fin da bambino; riga o pagina della storia universale che leggeranno i posteri. La sua storia, questo Giulio lo sapeva, iniziava in quella grande casa, in quella cittadina silenziosa tra i monti d'Abruzzo. Quel paese, gli anni della prima fanciullezza che vi aveva trascorso, erano in fondo alla sua anima come la sinopia di un affresco, incompiuto per continue esitazioni dell'affreschista, ma sulle cui linee essenziali sarebbero stati stesi, poi, i colori man mano che quelle incertezze fossero state vinte. La parte primigenia della sua personalità era intessuta del profilo di quei monti che pareva gli si muovessero incontro quando in auto percorreva i tornanti della superstrada che ne guadagna i contrafforti; monti che aveva scrutato da bambino, quando in braccio alla madre o alle zie glieli avevano mostrati dalle finestre, verdeggianti di pascoli e di boschi o incappucciati di neve e di ghiacci rilucenti al sole. Intessuta delle ore e dei giorni trascorsi in quella casa tra le vicende domestiche che l'avevano riempita e vissuta; dell'atmosfera familiare di quella cittadina dalle tante pietre dorate dal tempo nelle strade e nei muri che sembrano una continuazione delle pareti domestiche. Su quella trama indelebile di ricordi e di emozioni s'erano stratificati, poi, gli studi, le conoscenze, i viaggi, i più recenti impegni, senza mai sommergerla e annullarla. In quella casa, nel silenzio delle sere e delle notti, riposando lo sguardo su forme consuete, Giulio sentì che forse avrebbe potuto collocare come in una nicchia scavata nei secoli gli sconvolgimenti tecnologici, ambientali, sociali, economici che erompevano dai titoli dei giornali e strepitavano dalla televisione, e quelli più subdoli e tormentosi della coscienza dei singoli e della collettività. Quel piccolo mondo poteva forse aiutarlo a risolvere alcuni dubbi, a far ordine tra quelle idee e quei pensieri che sentiva fermentare nella mente e che non riusciva a maturare nella vita febbrile e convulsa di lavoro nella grande città; che gli parevano ora fotogrammi istantanei e nitidi della sua vita e della realtà che gli era intorno, ora immagini e rappresentazioni confuse e approssimative di orizzonti lontani.

* * *

Le campane del Convento dei francescani suonarono il mattutino, seguite tosto dai rintocchi piovuti dal campanile della Basilica. Per un'antica abitudine Giulio li contò: prima tre, poi quattro, poi cinque, poi uno. Balzò dal letto. Quel fluire di ricordi e di sensazioni antiche, tra fantasia e realtà che la sera prima lo avevano tenuto desto a lungo, s'era poi risolto in una sorta di quiete interiore, in uno stato di crepuscolare vitalità, nel quale sorridente gli era apparsa Clelia nella sua intima bellezza. Ora avvertiva un bisogno urgente di moto fisico.

Aprì le imposte; il sole posato sulle nebbie sprimacciate tra le cime dei monti sembrava volervi indugiare alquanto prima dell'ascesa in un cielo vasto e sereno. Giulio si vestì in fretta, voleva rivedere e rivivere quel suo paese in un personale, immediato, esclusivo rapporto; in solitudine, prima che le ore laboriose del mattino schiudessero i negozi e riempissero di passanti le strade. Qualcosa, per lui essenziale, si celava in quel luogo da afferrare ed acquisire nell'anima e nell'intelletto.

Prima di tutto l'immagine del "mio paese", pensò; di quello che non serviva definire "centro storico" perché era l'unica Pescocostanzo che esistesse! Sapeva dove l'avrebbe ritrovata, di dove con un sol colpo d'occhio l'avrebbe posseduta tutta intera, uguale al ricordo. Uscì di casa e corse su per le ripide vie Colle dei Corvi e Colle Jaduni, tagliò le curve della nuova strada delle pinete, ripercorrendo i superstiti tratti dell'antico sentiero pietroso. Il fiato era grosso, ma Giulio riusciva ancora a far le salite di corsa; l'entusiasmo, forse, gli attutiva la percezione della fatica dei muscoli non allenati. Raggiunse il suo osservatorio: una roccia protesa nel vuoto tra i pini. Una cornice di verde toglieva allo sguardo le nuove costruzioni e cingeva l'antico abitato steso tra il roccione del Castello e la Basilica di Santa Maria del Colle. Tornò a cercarvi le singole vie e i palazzi. Nel silenzio scandito dall'alitare dei pini guardò a lungo la distesa monocroma dei tetti embricati a testuggine. Gli parvero un grande scudo retto sul cuore da un nobile, antico guerriero. Erano i battiti di quel cuore che ora lui voleva ascoltare! Scese da quel suo osservatorio per un altro sentiero, di corsa come ai tempi dei pantaloncini corti e del prezioso coltellino in tasca. Entrò nella cittadina dalla dirupata via delle Pretara, col suo lembo di case in ascesa delle prime balze del monte Rotella e fu a uno dei gomiti del 'Giro del Paese'. Le strade erano ancora vuote. Questa volta si sarebbe tuffato nei vicoli, avrebbe percorso le vie meno importanti: Campo dei Fiori, Valle Gelata, Vico dell'Oca, Carbonarello, Via delle Dee, La Prece, La Marella... La sua attenzione non si sarebbe posata sui monumenti maggiori, come quando accompagnava gli amici nella visita della cittadina. I palazzi pubblici e quelli delle antiche e ricche famiglie, le numerose chiese con le loro opere d'arte, progettate ed eseguite anche da artisti di grande fama, la Basilica di Santa Maria del Colle, che a sommo di un'ampia scalinata spalanca ai fedeli le arcate concentriche del suo portale romanico in un amplesso materno, erano gli assolo, gli acuti della melodia corale che s'eleva dalla perfetta armonia dell'intero ambiente e delle sue architetture. Le piazze, le strade, i larghi, le scalinate, con i loro ampi spazi e misurati volumi disvelano un'anima sociale che con sorprendente saggezza aveva improntato la prima idea urbanistica, continuata e sviluppata poi con amore, di generazione in generazione, nell'arco di tre-quattro secoli. Anche le più umili dimore della cittadina sono in perfetta armonia con lo stile del luogo e ciascuna di esse reca, quasi in proporzione al ruolo svolto nel contesto urbano, il proprio contributo al decoro cittadino con una fine opera di artigianato posta sulla facciata: una mensola, un pilastrino, un capitello.

Un così rigoroso rispetto del comune decoro cittadino attraverso i secoli e l'evidente concorso dei singoli ad accrescerlo e migliorarlo, dovevano avere profonde radici nello spirito degli abitanti. Il tessuto urbano di Pescocostanzo e il complesso di quelle antiche opere d'arte e di artigianato artistico erano un documento di specifico valore umano e sociale della vita di quella comunità, dell'immagine che essa ebbe e volle dar di sé, della sua cultura, della sua mentalità e del momento psicologico collettivo che ne fu alla base.

Quegli antichi abitanti, pensava Giulio, erano uomini con pregi e difetti come noi, che cosa accrebbe di tanto il loro senso della socialità dei rapporti e della convivenza? Attribuire solo a fattori casuali e strutturali valore di unica determinante delle caratteristiche civili ed 'umane' di quella cittadina equivale a privare gli abitanti, che così la fecero e vissero, di intelletto e di anima, assimilandoli ad api o a formiche. L'interesse di Giulio per questa sua indagine psicologica retrospettiva era diventato acuto e sottendeva il suo stato d'animo inquieto.

Camminando per quelle strade giunse dinanzi ad una bottega di fabbri chiusa da non molti anni. Sui battenti erano i marchi per il bestiame e per i formaggi che appena forgiati, roventi, lì venivano impressi come sorta di elementare reclame. Tornò allora vivo nella sua mente, accompagnato da un insolito senso di pace, forse di sicurezza, il ricordo delle botteghe degli artigiani che a Pescocostanzo aveva frequentato da ragazzo per piccole commissioni e per il gusto di vedere i mastri all'opera, chiedere spiegazioni e averle. Erano antichissime, poste al pianterreno delle abitazioni, buie, rischiarate solo dalla luce che entrava dalla porta d'ingresso, mura polverose ed affumicate; ciascuna col proprio odore caratteristico: di colla cerviona fusa e di legno segato di fresco quelle dei falegnami; di fuliggine e di fucina quelle dei fabbri e così via. In tali vani da due, tre o più secoli si svolgeva lo stesso lavoro, si esercitava lo stesso mestiere, cosa che a lui era parsa, a quell'epoca, del tutto naturale: quella bottega era stata costruita per quella famiglia di fabbri, l'altra per quella famiglia di mastri di scalpello; gli sarebbe parsa allora una violazione dell'ordine naturale delle cose se una di tali botteghe avesse cambiato la sua destinazione originaria. Ma non solo i vani erano antichi; salvo qualche modesto acquisto dovuto ai progressi della meccanica, anche i ferri del mestiere erano antichi: "Questa incudine era di mio nonno... abbada..." e giù colpi sul ferro incandescente "...due al caldo e uno al freddo..." Sotto i colpi sordi, il ferro rovente si torceva e sagomava provocando zampilli di scintille in tutta la gamma dei rossi (era ad esse che bisognava abbadare) e i colpi sull'incudine risuonavano acuti e lunghi nelle orecchie e segnalavano da lontano la presenza del fabbro al lavoro. Così dal falegname o dallo scalpellino: "Questa pialla era di mio padre, questa mazza del mio bisnonno..." I mastri nelle botteghe, Giulio li ricordava bene, erano arguti, un po' preziosi, ma attenti nel ricevere le commissioni e nel consigliare rettifiche e miglioramenti alle opere: "...Qui le cerniere è meglio farcele a coda di rondine...Meglio fissarle a piombo queste tenute nella pietra, saranno eterne..." Anche quando il lavoro era di maggior impegno –scolpire un nuovo portale, un cornicione che ripetesse il motivo di un bassorilievo vicino, costruire una grande libreria o una cancellata– non v'era di solito bisogno dell'architetto. A sera con riga e compasso l'artigiano preparava il disegno interpretando il gusto del cliente e infondendovi il suo; v'annotava poi il nome del committente e apponeva la firma. La figura era armonica, la calligrafia e la firma nitide. Non esisteva analfabetismo tra gli artigiani del paese.

Giulio ricordava l'evidente compiacimento di quei maestri quando avevano ben compiuto un'opera: lo scatto delle mandate della serratura che aveva forgiato e munito di complicati riscontri, o che aveva riparato da rotta e rugginosa che era, gratificava mastro Giovanni; la precisione dell'incastro tra fusti e specchi dell'infisso che stava costruendo, i quali sotto misurati colpi di martello si andavano combinando esatti sì che a fine corsa il manufatto risuonava come un sol blocco, rendeva mastr'Andrea fiero della perfezione del suo lavoro. Ma proprio questi s'ebbe in ospedale, dove un giorno lo portarono d'urgenza, una diagnosi di emorragia cerebrale e relativa cura, quando invece il suo problema era una ritenzione acuta di orina che aveva reso la sua vescica grossa quanto un utero gravido al settimo mese (ed era un omino magro, che educatamente ripeteva di non poter fare pipì!) E quando questa circostanza fu imposta all'attenzione dei medici, ancora peggio fu per lui! Al mastro furono conficcati cateteri e minugie con la malagrazia che lui mai avrebbe usato col più storto e nodoso dei suoi legni e così rese la sua buona anima a Dio. Che cosa aveva impedito a quei medici di far del loro meglio per i casi di mastr'Andrea e a fine dell'opera provare anche loro la stessa soddisfazione che quello provava quando s'era impegnato nel suo lavoro? quando poi tra mano avevano un uomo e non un legno o un ferro!

Giulio pensò che la lunga frequentazione di quella cittadina, la conoscenza dei diretti discendenti di quegli antichi maestri, lo avrebbero forse aiutato a cogliere aspetti particolari della loro vita, sintomi e segni di conflitti interiori per tanti versi analoghi a quelli suoi e del suo tempo. Conflitti che essi, però, con le loro opere, con l'atmosfera creata in quel luogo, per il profondo senso di solidarietà che da quelle mura traspirava, dimostravano di aver, se non sempre risolti e vinti personalmente, di certo superati e controllati come collettività.

A rendere meno arbitrario ed unilaterale tale suo colloqio erano lì una sorta di bizzarri, originali documenti che avevano diretto, immediato riferimento con il pensiero di quegli antichi concittadini: i motti, scolpiti in gran numero nella pietra degli architravi delle porte e delle finestre, soprattutto nelle case dei popolani, che a lui erano sempre parsi uno degli elementi più caratteristici di Pescocostanzo. Non epigrafi magniloquenti e celebrative, ma semplici memorie di fatti della vita quotidiana, di moti dell'animo che gli autori, spesse volte anche personali artefici di quelle iscrizioni, vollero esternare ai contemporanei e ai discendenti. Non sembrava a Giulio impossibile analizzarne e resuscitarne l'anima.

Ecco lì nell'epigrafe Pregiaria, Jesus Maria il lamento e lo scongiuro di colui che, malaccorto, dovette scontare la sua malleveria per l'amico insolvente, e il Cedat unus multitudini che ti richiama all'osservanza di una norma di civile convivenza, e Oblivio contumeliae medela datato 1564 e Iniustum capient in mala morte virum che ti coinvolgono nei problemi morali che travagliarono gli antichi padroni di quelle case. Di amaro monito è, sull'architrave della cinquecentesca porta della casa dei poveri, il Neutri fortunae sed soli deo confidendum. Ma Etenim non potuerunt mihi, che tra le parole chiude un'incudine ed un braccio che vi batte con un martello, è il grido di esultanza e di trionfo di un fabbro: dell'artefice del fastoso cancello in ferro battuto che è nella Basilica. Su un pilastro della fontana principale della cittadina, poi, dove in una antica scultura tritoni e centauri risolvono la loro contesa tra un fitto intreccio di foglie di acanto, dirigendo nelle vasche copiosi getti d'acqua, Giulio rilesse il motto: "Avverti che Dio ti vede"; quante maldicenze delle comari che lì si incontravano e indugiavano con la conca vuota sotto il braccio, o piena in bilico sulla testa, avrà moderato quel motto? Ora l'acqua sgorga dai rubinetti di tutte le case e quel motto, che un'antica sapienza aveva dettato, parve a Giulio aver perso il suo ufficio, come un manifesto rimasto attaccato al muro nei giorni seguenti l'evento che annunciava. Così, nell'orto adiacente, anche un noce secolare che fa ombrello alla fonte con la sua immensa chioma, offriva invano i suoi frutti maturi; nessuno li raccoglieva; anche i monelli che una volta erano i suoi più affezionati amici e rubavano le noci, erano scomparsi. Giulio si chiese se questi fossero pur tenui riflessi di sostanziali cambiamenti avvenuti nella storia dell'uomo, segni della rottura di un equilibrio basilare consolidato nel tempo. La sapienza che aveva inciso quel motto, così come la scienza che aveva vinto la tubercolosi, la malaria, la povertà dei tempi antichi, non potevano essere decadute e perse! Che cosa ne appannava oggi la luce e lasciava le coscienze in ombra? Come attenuare quel senso d'angoscia, d'irrealtà che di conseguenza lo teneva? Lui doveva superare quella sorta di vuoto affettivo di cui si sentiva circondato e che lo isolava nel dubbio. Lui e le sue tenui speranze, lui ed il suo presunto granello di umanità erano la parte infinitesimale (eppure a lui pareva il suo tutto) di una superiore essenza biologica se non spirituale dell'uomo, o gli altri erano realtà e lui sogno, delirio?

Poco più oltre Giulio fu di fronte a un motto dal quale gli era sempre parso che emanasse un'aura di mistero. E' il motto "CHI SA", scolpito sull'architrave di una delle semplici finestre di una casa che non presenta per il resto altre particolarità di distinzione, sita nel Largo Avanti la Chiesa, nel quartiere sorto dopo che un terremoto nel 1456 aveva distrutto il primitivo nucleo abitato del paese appollaiato sul roccione, sul "Peschio". Quel motto poteva esprimere il dubbio scettico dei filosofi greci, o quello metodologico e sistematico di Cartesio contemporaneo, forse, del proprietario di quella casa; ma Giulio sentiva che il dubbio che v'era espresso aveva un'altra natura; lo avvertiva psicologicamente ben più vicino a sé: espressione del continuo fluire nella mente di opposte idee, senso della dispersione dell'Io nel limbo in cui vaga la quotidiana esistenza dell'uomo al quale è concessa una sola, ovvia, certezza. Quel CHI SA doveva valere anch'esso, dunque, ad acuire le sue incertezze e le sue ambasce, a martellargliele e ribadirgliele in testa, a sostenere ancora quel subitaneo dilagare e retrarsi delle sue sensazioni in quella sfibrante altalena di chiarezza e di caliginosa percezione degli eventi che così spesso lo teneva? E se quel motto, invece, fosse stato la traccia ammiccante di un segreto equilibrio interiore, di una felice condizione dello spirito che aveva possedutochi lo volle scolpito nella sua casa?

Chi fu, allora, quell'uomo, e cosa davvero aveva voluto dire ai suoi concittadini con quel CHI SA ben in vista sulla sua finestra. Come visse; fu assillato dal dubbio? come visse malgrado il dubbio, conobbe un segreto? Giulio sentì che una profonda affinità di pensieri e di sentimenti poteva esserci tra lui e quell'ignoto preso, forse, dalle sue stesse ambasce. Doveva cercare di conoscerlo, di immaginarselo.

Quella che gli era di fronte poteva esser stata la casa di uno dei tanti artigiani che allora costituivano gran parte della popolazione di Pescocostanzo; di uno scultore, forse, visto che il motto è ben scolpito nella pietra. Lo chiamerò Ambrogio, decise Giulio, perché probabilmente sarà stato nipote o pronipote di uno di quei mastri che la storia del paese narra siano scesi in quell'epoca dalle valli bergamasche, in vere e proprie compagnie, cercando lavoro. Se quelle con ogni probabilità furono le sue origini, la personalità irrequieta, pungolata dall'assillo del dubbio e la fantasia spronata dall'ansia di penetrare l'ignoto, lo spingevano certo verso livelli via via più alti di pensiero e di opere.

Giulio poteva immaginarne la vita: lo vedeva giovane, nella bottega, cavare spigoli e piani dai blocchi di pietra freschi di cava con colpi secchi e sicuri, o scegliere tra gli altri uno scalpello più piccolo, verificarne il taglio e con tocco leggero e veloce rifinire le volute di una foglia di acanto o levigare le gote del volto di un angelo; lo vedeva studiare disegni e scegliere massi dalla grana più fine per le delicate sculture che sarebbero poi germogliate nella pietra dei portali, degli altari, delle finestre in tutto il paese. Lo vedeva nella sua vita familiare, con la essenziale economia dell'epoca, i bisogni della numerosa prole, le richieste e querele della moglie che al telaio tesse il panno per le vesti di tutta la famiglia: "L'indaco per la tintura, ...una tinozza nuova!..." E lo vedeva in chiesa cantare con voce d'organo -come altri lui ne aveva udito- le lodi al Signore nelle funzioni serali. Gli ori, le luci, i colori rutilanti delle tele e dei marmi policromi degli altari s'imprimono nella sua mente e tengono desta la sua fantasia anche quando, a casa, la fiamma del camino e la piccola lucerna rischiarano appena la notte. Come quei contrasti cromatici, di luci e di ombre, di silenzio e di canto, così quelli tra ricchezza e povertà, salute e malattia, amore e odio, altruismo e invidia, colpiscono la sua mente, stimolano il suo senso dell'arte, acuiscono il suo senso della giustizia. Lui stesso, Ambrogio, scolpiva e contrapponeva volti fanciulleschi di angeli e volti farneticanti di mostri e di diavoli; la sua stessa arte serviva di edificazione, ispirava letizia o, invece, angoscia e terrore ai suoi concittadini. Come a lui da bambino le immagini dei draghi infernali, delle anime purganti tra le fiamme e il volo dei cherubini intorno alla dolce immagine di Maria, avevano ispirato speranze e inquietudini, incubi e gioia, e da adulto il dubbio. La contraddizione era nella maggior parte di ciò che lo circondava e nei suoi stessi pensieri, sicché essa dovette sembrargli una condizione singolare, una strana regola di vita. Generatrice di stati d'animo opposti, di scoramento e di sfiducia così come di desiderio di azione, d'avventura e di scoperta del nuovo; giacché v'era sicuramente dell'ignoto che attendeva di esser conosciuto, da lui stesso o da altri come lui. Allora alcune contraddizioni sarebbero cadute e ne sarebbero nate di nuove e nuovi dubbi, ma nuovi! A questo punto Giulio vedeva Ambrogio, maestro Ambrogio ormai, nella sua bottega sospendere il lavoro, –mazzuolo nella destra, scalpello nella sinistra, i primi fili bianchi a stemperare il bruno della sua capigliatura– e restare assorto, incerto dei suoi stessi sentimenti; lo vedeva osservare esitante la sua opera prossima al compimento e le pietre ancora da scolpire: perché continuare? quante volte un lavoro cui aveva dedicato ogni cura, non era piaciuto o era stato disprezzato da un committente ricco, ma ignorante? Quante volte gli era stato preferito un rivale meno capace? valeva la pena di continuare, se a volte non riusciva neppure a sopperire ai bisogni della famiglia?

Ma quando era all'opera, quando studiava e preparava i suoi lavori osservando la natura, i fiori, i frutti, la fauna e l'uomo come parte di essa, nelle sue fattezze esteriori, nei pensieri e nell'animo, che pure traspaiono dall'involucro corporeo, avvertiva in sé una forza creatrice immensa, un potere, un dominio della materia quasi illimitati, che lo rendevano tutt'uno con la sua creazione, con la sua creatura. Scalpellino, fabbro, intagliatore, orafo quel maestro era un abile disegnatore: creava nelle volute dei capitelli, nelle sagome e nei fregi dei cancelli, dei cornicioni e nei monili, forme sempre nuove; giochi di linee intrecciate come quelle delle trine di cui a sera preparava i modelli per le donne di casa. Linee che si annodano e risolvono, si perdono e riemergono in grovigli e labirinti e che in un'antica trina racchiudono nel groviglio, certo emblematicamente, le figurine di un uomo e di una donna. Il paragone con il filo della sua vita sarà stato per il maestro spontaneo ed immediato. Trasfigurando quelle linee nella sua mente, con le forme dei suoi schemi e del suo lessico concettuale, avrà immaginato lo svolgersi dell'esistenza umana come una sorta di diagramma dalle infinite, bizzarre variabili. Isolare il corso delle singole componenti era impossibile, se non per la parte già svolta e in quei soli punti nodali corrispondenti ai principali, macroscopici eventi della sua vita. Ma per l'altra parte, quella ancora da venire, restava l'ignoto, ciò che tutt'al più é probabile, nel quale solo all'intuito, alla speculazione, alla ricerca, è possibile tracciare incerti e forse perciò appassionanti sentieri: gli itinerari dell'avventura umana. Allora il maestro dovette sentire più acuto il desiderio e l'ansia di partecipare e comprese che per tale partecipazione erano elementi insostituibili il lavoro, le sue capacità creative, il confronto con i colleghi e i rivali, la collaborazione. Certamente scoprì pure nel suo mondo interiore l'emergere di livelli diversi di pensiero e di raziocinio, di sentimenti molteplici in combinazioni talora contraddittorie; percepì i limiti angusti del razionale e la sicura esistenza di una parte di errore a lui ignota anche nei suoi più meditati giudizi; avvertì innato nell'animo suo un moto spontaneo di disponibilità e simpatia verso il prossimo, cui s'opponeva istintivo e prepotente l'egoismo.

Ma dovette avvertire questo di falsa utilità, perché spingendolo ad una miope e rozza tutela dei suoi esclusivi, primordiali interessi, lo privava invece di affetti, lo isolava e relegava in una solitudine angosciosa fuori dal circuito dell'umana solidarietà. Allora certo intuì l'esistenza, quale parte integrante delle funzioni e delle capacità dell'intelletto umano, di un animus sociale che per esprimersi abbisogna di una condizione di civile convivenza. E forse proprio a questa svolta del pensiero maestro Ambrogio sentì che avrebbe trovato in sé la forza per sopportare l'ansia generata da tante incertezze e contraddizioni, dal carattere di relatività e temporaneità dei propri concetti, dal dubbio.

Con simili idee in testa, un giorno che aveva lì pronti i pezzi della finestra nuova, che sua moglie desiderava da tempo ("...che quella che c'è è un pertugio, dà poca luce, non ci cape nemmeno la testa ad affacciarsi...Eppure tu ne fai tante, belle e grandi, per tutti..."), finestra che le aveva preparato come dono a sorpresa, maestro Ambrogio scolpì sull'architrave CHI SA, poi riprese il lavoro.

Ebbe successo nella vita Ambrogio, attinse le vette della ricchezza e della fama, come i più illustri artisti suoi concittadini? fu uno di essi? o nonostante la sua raffinata sensibilità, i suoi meriti artistici, la sua sapienza, rimase sconosciuto, nell'ombra, ignorato dalla dea fortuna?

L'antico immaginario maestro, durante quel particolare colloquio, aveva acquistato per Giulio una sorta di trascendente corporeità; gli parve vincitore delle sue angosce; lui e molti dei suoi antichi concittadini dovevano conoscere il segreto per vivere con pienezza la vita malgrado il dubbio. Quel segreto era riposto tra le case e le piazze di Pescocostanzo. Sentì che avrebbe potuto penetrarlo: il gioco della vita e della morte, della gioia e del dolore è antico quanto l'uomo, la sua essenza resta invariata; solo le regole mutano col volgere del tempo. Avrebbe scolpito anche lui "CHI SA" nell'architrave del suo pensiero e spalancato nell'anima una finestra più ampia verso il mondo.

* * *

A sera, quando salì in macchina per tornare in città, Giulio si sentì rasserenato, con nuova lena per affrontare le difficoltà ed anche i piaceri della vita. Fece il proposito di recarsi più spesso a Pescocostanzo, soprattutto quando si fosse trovato a dubitare di sé. Appena giunto a casa, intanto, avrebbe telefonato a Clelia e se non l'avesse trovata sarebbe andato ad attenderla al suo portone. Era ora di vederla, di stringerla a sé, di averla! Questo pensiero ridusse la noia della guida negli ultimi affollati chilometri di autostrada. Quando fu a casa, prima di formare il numero di Clelia ascoltò i messaggi registrati nella segreteria telefonica. Tra gli squilli seguiti solo dallo scatto della comunicazione interrotta, c'erano i messaggi dei suoi pazienti e i saluti di alcuni amici; poi Giulio trasalì, era la voce di Clelia: "Giulio, sono Clelia, so che mi hai cercato tanto..." la voce gli parve venata e a tratti rotta dall'emozione; il cuore cominciò a battergli forte nel petto mentre il messaggio continuava. Ad un certo punto si rese conto di non comprendere più il significato delle parole. Le pareti della camera gli si strinsero addosso a opprimerlo e soffocarlo; poi tutto si dileguò e fu sospeso nel vuoto. Meccanicamente riavvolse, ascoltò e riascoltò la voce che gli era innanzi: "Giulio, sono Clelia, so che mi hai cercato tanto. Credimi, caro, tu non sai quanto avrei voluto farmi trovare da te....essere con te! Ma così non è stato, né sarà. Spiegartene il motivo nulla toglierebbe a questa realtà amara ... e mi farebbe male. Vado via dall'Italia per fermarmi non so dove, non so quando. Tutto ora mi è tolto e davanti a me c'è solo il buio, fitto, totale! Forse, a volte un minuscolo, tremulo filo di luce m'appare in fondo all'anima e mi colgo a spiarlo; con gli occhi del cuore, però, non della mente. Chi sa!"

 

 

FINE

INDICE

 

Parte Prima

Il dispetto di Don Arcangelo

Zeferino

Le terre di Puglia

Don Donato

Risorgimento

Benvenuto,... Decimo!

La Passatella

Parte Seconda

Padre

Vittorio

Chi sa