Ultime lettere di Jacopo Ortis

di Ugo Foscolo


PARTE TERZA


Bologna, 24 Luglio, ore 10

Vuoi tu versare sul cuore dell'amico tuo qualche stilla di balsamo? Fa che Teresa ti dia il suo ritratto, e consegnalo a Michele ch'io ti rimando imponendogli di non ritornare senza tue tisposte. Va a' colli Euganei tu stesso: forse quella disgraziata avrà bisogno di chi la compianga. Leggi alcuni frammenti di lettere che ne' miei affannosi delirj io tentava di scriverti. Addio. - Vedrai la Isabellina, baciala mille volte per me. Quando nessuno si ricorderà più di me, fors'ella nominerà qualche volta il suo Jacopo. O mio caro! avvolto in tante miserie, fatto diffidente dagli uomini, con un'anima ardente e che pur vuole amare ed essere riamata, in chi poss'io confidarmi se non in una fanciullina non corrotta ancora dall'esperienza né dall'interesse, e che per una secreta simpatia mi ha tante volte bagnato del suo pianto innocente? S'io un giorno sapessi che non mi nomina più, credo, morrei di dolore.
E tu, dimmi, Lorenzo mio, m'abbandonerai tu? L'amicizia cara passione della gioventù ed unico conforto dell'infortunio s'agghiaccia nella prosperità. O gli amici, gli amici! Tu non mi perderai se non quando io scenderò sotterra. Ed io cesso dal querelarmi talvolta delle mie disgrazie perché senza di esse non sarei degno forse di te; né avrei un cuore capace di amarti. Ma quando io non vivrò più; e tu avrai ereditato da me il calice delle lagrime - oh! non cercare altro amico fuor di te stesso.


Bologna, la notte de' 28 Luglio

E' mi parrebbe pure di star meno male se potessi dormire lungamente un gravissimo sonno. L'oppio non giova; mi desta dopo brevi letarghi pieni di visioni e di spasimi - e sono più notti! - Ora mi sono alzato per provarmi di scriverti; ma non mi regge più il polso. - Tornerò a coricarmi. Pare che l'anima mia siegua lo stato negro e burrascoso della Natura. Sento diluviare: e giaccio con gli occhi spalancati. Dio mio! Dio mio!


Bologna, 12 Agosto

Oramai sono passati diciotto giorni da che Michele è ripartito per le poste, né torna ancora: e non veggo tue lettere. Tu pure mi lasci? Per Dio, scrivimi almeno: aspetterò sino a lunedì, e poi prenderò la volta di Firenze. Qui tutto il giorno sto in casa perché non posso vedermi impacciato fra tanta gente; e la notte vo baloccone per città come larva, e mi sento sbranare le viscere da tanti indigenti che giacciono per le strade, e gridano pane; non so se per loro colpa, o d'altri - so che domandano pane. Oggi tornandomi dalla posta mi sono abbattuto in due sciagurati menati al patibolo: ne ho chiesto a quei che mi si affollavano addosso; e mi è stato risposto, che uno avea rubato una mula, e l'altro cinquantasei lire per fame. Ahi Società! E se non vi fossero leggi protettrici di coloro che per arricchire col sudore e col pianto de' proprj concittadini li sospingo al bisogno e al delitto, sarebbero poi sì necessarie le prigioni e i carnefici? Io non sono sì matto da presumere di riordinare i mortali; ma perché mi si contenderà di fremere su le loro miserie e più di tutto su la lor cecità? - E mi vien detto che non v'ha settimana senza carneficina; e il popolo vi accorre come a solennità. I delitti intanto crescono co' supplizj. No, no; non voglio più respirare quest'aria fumante sempre del sangue de' miseri. - E dove?


Firenze, 27 Agosto

Dianzi io adorava le sepolture di Galileo, del Machiavelli, e di Michelangelo; e nell'appressarmivi io tremava preso da brivido. Coloro che hanno eretti que' mausolei sperano forse di scolparsi della povertà e delle carceri con le quali i loro avi punivano la grandezza di que' divini intelletti? Oh quanti perseguitati nel nostro secolo saranno venerati da' posteri! Ma e le persecuzioni a' vivi, e gli onori a' morti sono documenti della maligna ambizione che rode l'umano gregge.
Presso a que' marmi mi parea di rivivere in quegli anni miei fervidi, quand'io vegliando su gli scritti de' grandi mortali mi gittava con la immaginazione fra i plausi delle generazioni future. Ma ora troppo alte cose per me! - e pazze forse. La mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guasto qui - nel profondo.
Ritienti le commendatizie di cui mi scrivi: quelle che mi mandasti io le ho bruciate. Non voglio più oltraggi, né favori da veruno degli uomini potenti. L'unico mortale ch'io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri; ma odo dire ch'ei non accoglie persone nuove: né io presumo di fargli rompere questo suo proponimento che deriva forse da' tempi, da' suoi studj, e più ancora dalle sue passioni e dall'esperienza del momdo. E fosse anche una debolezza, le debolezze di sì fatti mortali vanno rispettate; e chi n'è senza, scagli la prima pietra.


Firenze, 7 Settembre

Spalanca le finestre, o Lorenzo, e saluta dalla mia stanza i miei colli. In un bel mattino di Settembre saluta in mio nome il cielo, i laghi, le pianure, che si ricordano tutti della mia fanciullezza, e dove io per alcun tempo ho riposato dopo le ansietà della vita. Se passeggiando nelle notti serene i piedi ti conducessero verso i viali della parrocchia, io ti prego di salire sul monte de' pini che serba tante dolci e funeste mie rimembranze. Appiè del pendio, passata la macchia de' tigli che fanno l'aere sempre fresco e odorato, là dove que' rigagnoli adunano un pelaghetto, troverai il salice solitario sotto i cui rami piangenti io stava più ore prostrato parlando con le mie speranze. E come tu sarai giunto presso alla vetta, udrai forse un cuculo il quale parea che ogni sera mi chiamasse col lugubre suo metro, e soltanto lo interrompea quando accorgevasi del mio borbottare o del calpestio de' miei piedi. Il pino dove allora e' si stava nascosto, fa ombra a' rottami di una cappelletta ove anticamente si ardeva una lampada a un crocifisso: il turbine la sfracellò quella notte che lasciò fino ad oggi e mi lascierà finché avrò vita lo spirito atterrito di tenebre e di rimorso; e quelle ruine mezzo sotterrate mi pareano nell'oscurità pietre sepolcrali, e più volte io mi pensava di erigere in quel luogo e fra quelle secrete ombre il mio avello. Ed ora? chi sa ov'io lascierò le mie ossa! - Consola tutti i contadini che ti chiederanno novelle di me. Già tempo mi si affollavano attorno, ed io li chiamava miei amici, e mi chiamavano benefattore. Io era il medico più accetto a' loro figliuoletti malati; io ascoltava amorevolmente le querele di que' meschini lavoratori, e componeva i loro dissidj; io filosofava con que' rozzi vecchj cadenti ingegnandomi di dileguare dalla lor fantasia i terrori della religione, e dipingendo i premj che il Cielo riserba all'uomo stanco della povertà e del sudore. Ma ora s'attristeranno nel nominarmi, poiché in questi ultimi mesi passava muto e fantastico senza talvolta rispondere a' loro saluti; e scorgendoli da lontano mentre cantando tornavano da' lavori, o riconduceano gli armenti, io gli scansava imboscandomi dove la selva è più negra. E mi vedeano su l'alba saltare i fossi e sbadatamente urtar gli arboscelli, i quali crollando mi pioveano la brina su le chiome; e così affrettarmi per le praterie, e poi arrampicarmi sul monte più alto donde io fermandomi ritto e ansante, con le braccia stese all'oriente, aspettava il Sole per querelarmi con lui che più non sorgeva allegro per me. Ti additeranno il ciglione della rupe sul quale, mentre il mondo era addormentato, io sedeva intento al lontano fragore delle acque, e al rombare dell'aria quando i venti ammassavano quasi su la mia testa le nuvole, e le spingevano a funestare la Luna che tramontando, ad ora ad ora illuminava nella pianura co' suoi pallidi raggi le croci conficcate su i tumuli del cimitero; e allora il villano de' vicini tugurj, per le mie grida destandosi sbigottito, s'affacciava alla porta, e m'udiva in quel silenzio solenne mandare le mie preci, e piangere, e ululare, e guatare dall'alto le sepolture, e invocare la morte. O antica mia solitudine! Ove sei tu? Non v'è gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore alimentandomi quel soave e patetico desiderio che sempre accompagna fuori dalle sue case l'uomo esule, e sventurato. Parmi che i miei piaceri e i miei dolori, i quali in que' luoghi m'erano cari - tutto insomma quello ch'è mio, sia rimasto tutto con te; e che qui non si trascini pellegrinando se non lo spettro del povero Jacopo.
Ma tu, amico unico mio, perché appena mi scrivi due nude parole avvisandomi che tu se' con Teresa? E non mi dici né come vive; né se s'attenta di nominarmi; né se Odoardo me l'ha rapita? Corro, e ricorro alla posta, ma senza pro; e torno lento, smarrito, e mi si legge nel volto il presentimento di grave sciagura. E mi par d'ora in ora udirmi pronunziare la mia sentenza mortale - Teresa ha giurato. - Ohimè! e quando mai cesserò da' miei funebri delirj, e dalle mie crudeli lusinghe? Addio.


Firenze, 17 Settembre

Tu mi hai inchiodata la disperazione nel cuore. Vedo oramai che Teresa tenta di punirmi d'averla amata. Il suo ritratto l'aveva mandato a sua madre prima ch'io lo chiedessi? - tu me ne accerti, ed io credo; ma guardati che per tentare di risanarmi tu non congiurassi a contendermi l'unico balsamo alle mie viscere lacerate.
O mie speranze! si dileguano tutte; ed io siedo qui derelitto nella solitudine del mio dolore.
In che devo più confidare? non mi tradire, Lorenzo: io non ti perderò mai dal mio petto, perché la tua memoria è necessaria all'amico tuo: in qualunque tua avversità tu non mi avresti perduto. Sono io dunque destinato a vedermi svanire tutto davanti? - anche l'unico avanzo di tante speranze? ma sia così! io non mi querelo né di lei, né di te - non di me stesso, non della mia fortuna - ben m'avvilisco con tante lagrime, e perdo la consolazione di poter dire: Soffro i miei travagli e non mi lamento.
Voi tutti mi lascierete - tutti: e il mio gemito vi seguirà da per tutto; perché senza di voi non sono uomo: e da ogni luogo vi richiamerò disperato. - Ecco le poche parole scrittemi da Teresa: «Abbiate rispetto alla vostra vita; ve ne scongiuro per le nostre disgrazie. Non siamo noi due soli infelici. Avrete il mio ritratto quando potrò. Mio padre piange con me; e non gli rincresce ch'io risponda al biglietto che mi ha ricapitato da parte vostra; pur con le sue lagrime a me pare che tacitamente mi proibisca di scrivervi d'ora innanzi - ed io piangendo lo prometto; e vi scrivo, forse per l'ultima volta, piangendo - perché io non potrò più confessare d'amarvi fuorché davanti a Dio solo».
Tu sei dunque più forte di me? Sì, ripeterò queste poche righe come fossero le tue ultime volontà - parlerò teco un'altra volta, o Teresa; ma solamente quel giorno che mi sarò agguerrito di tanta ragione e di tale coraggio da separarmi davvero da te.
Che se ora l'amarti di questo amore insoffribile, immenso, e tacere e seppellirmi agli occhi di tutti, potesse ridarti pace - se la mia morte potesse espiare al tribunale de' nostri persecutori la tua passione e sopirla per sempre dentro il tuo petto, io supplico con tutto l'ardore e la verità dell'anima mia la Natura ed il Cielo perché mi tolgano finalmente dal mondo. Or ch'io resista al mio fatale e insieme dolcissimo desiderio di morte, te lo prometto; ma ch'io lo vinca, ah! tu sola con le tue preghiere potrai forse impetrarmelo dal mio Creatore - e sento che ad ogni modo ei mi chiama. Ma tu deh! vivi per quanto puoi felice - per quanto puoi ancora. Iddio forse convertirà a tua consolazione, sfortunata giovine, queste lagrime penitenti ch'io mando a lui domandandogli misericordia per te. Pur troppo tu, pur troppo, tu ora partecipi del doloroso mio stato, e per me tu se' fatta infelice - e come ho io rimeritato tuo padre delle affettuose sue cure, della fiducia, de' suoi consigli, delle sue carezze? e tu a che precipizio non ti se' trovata e non ti trovi per me? - Ma e di che dunque mi ha egli beneficato tuo padre, e ch'io oggi nol ricompensi con gratitudine inaudita? non gli presento in sacrificio il mio cuore che insanguina? Nessun mortale mi è creditore di generosità; - né io, che pur sono, e tu 'l sai, ferocissimo giudice mio posso incolparmi d'averti amata - bensì l'esserti causa d'affanni, è il più crudele delitto ch'io mai potessi commettere.
Ohimè! con chi parlo? e a che pro?
Se questa lettera ti trova ancora a' miei colli, o Lorenzo, non la mostrare a Teresa. Non le parlare di me - se te ne chiede, dille ch'io vivo, ch'io vivo ancora - non le parlare insomma di me. Ma io te lo confesso: mi compiaccio delle mie infermità: io stesso palpo le mie ferite dove sono più mortali, e cerco d'esulcerarle, e le contemplo insanguinate - e mi pare che i miei martirj rechino qualche espiazione alle mie colpe, e un breve refrigerio a' dolori di quella innocente.


Firenze, 25 Settembre

In queste terre beate si ridestarono dalla barbarie le sacre Muse e le lettere. Dovunque io mi volga, trovo le case ove nacquero, e le pie zolle dove riposano que' primi grandi Toscani: ad ogni passo ho timore di calpestare le loro reliquie. La Toscana è tuttaquanta una città continuata, e un giardino; il popolo naturalmente gentile; il cielo sereno; e l'aria piena di vita e di salute. Ma l'amico tuo non trova requie: spero sempre - domani, nel paese vicino - e il domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio e di solitudine. - Neppure mi è conceduto di proseguire il mio viaggio: avea decretato di andare a Roma a prostrarmi su le reliquie della nostra grandezza. Mi negano il passaporto; quello già mandatomi da mia madre è per Milano: e qui, come s'io fossi venuto a congiurare, mi hanno circuito con mille interrogazioni: non avran torto; ma io risponderò domani, partendo. - Così noi tutti Italiani siamo fuorusciti e stranieri in Italia: e lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci sono di scudo: e guai se t'attenti di mostrare una dramma di sublime coraggio! Sbanditi appena dalle nostre porte, non troviamo chi ne raccolga. Spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da' nostri medesimi concittadini, i quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl'Italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene - dimmi, Lorenzo, quale asilo ci resta? Le nostre messi hanno arricchiti nostri dominatori; ma le nostre terre non somministrano né tugurj né pane a tanti Italiani che la rivoluzione ha balestrati fuori dal cielo natio, e che languenti di fame e di stanchezza hanno sempre all'orecchio il solo, il supremo consigliere dell'uomo destituto da tutta la natura, il delitto! Per noi dunque quale asilo più resta, fuorché il deserto, e la tomba? - e la viltà! e chi più si avvilisce più vive forse; ma vituperoso a se stesso, e deriso da quei tiranni medesimi a cui si vende, e da' quali sarà un dì trafficato.
Ho corsa tutta Toscana. Tutti i monti e tutti i campi sono insigni per le fraterne battaglie di quattro secoli addietro; i cadaveri intanto d'infiniti Italiani ammazzatisi hanno fatte le fondamenta a' troni degl'Imperadori e de' Papi. Sono salito a Monteaperto dove è infame ancor la memoria della sconfitta de' Guelfi. - Albeggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto silenzio, e in quella oscurità fredda, con l'anima investita da tutte le antiche e fiere sventure che sbranano la nostra patria - o mio Lorenzo! io mi sono sentito abbrividire, e rizzare i capelli; io gridava dall'alto con voce minacciosa e spaventata. E mi parea che salissero e scendessero dalle vie dirupate della montagna le ombre di tutti que' Toscani che si erano uccisi; con le spade e le vesti insanguinate; guatarsi biechi, e fremere tempestosamente, e azzuffarsi e lacerarsi le antiche ferite. - O! per chi quel sangue? il figliuolo tronca il capo al padre e lo squassa per le chiome - e per chi tanta scellerata carnificina? I re per cui vi trucidate si stringono nel bollor della zuffa le destre e pacificamente si dividono le vostre vesti e il vostro terreno. - Urlando io fuggiva precipitosamente guatandomi dietro. E quelle orride fantasie mi seguitavano sempre - e ancora quando io mi trovo solo di notte mi sento attorno quegli spettri, e con essi uno spettro più tremendo di tutti, e ch'io solo conosco. - E perché io debbo dunque, o mia patria, accusarti sempre e compiangerti, senza niuna speranza di poterti emendare o di soccorrerti mai?


Milano, 27 Ottobre

< Ti scrissi da Parma; e poi da Milano il dì ch'io ci giunsi: la settimana addietro ti scrissi una lettera lunghissima. Come dunque la tua mi capita sì tarda, e per la via di Toscana d'onde partii sino dai 28 Settembre? mi morde un sospetto: le nostre lettere sono intercette. I governi millantano la sicurezza delle sostanze; ma invadono intanto il secreto, la preziosissima di tutte le proprietà: vietano le tacite querele; e profanano l'asilo sacro che le sventure cercano nel petto dell'amicizia. Sia pure! io mel dovea prevedere: ma que' loro manigoldi non andranno più a caccia delle nostre parole e de' nostri pensieri. Troverò compenso perché le nostre lettere d'ora in poi viaggino inviolate.
Tu mi chiedi novelle di Giuseppe Parini: serba la sua generosa fierezza, ma parmi sgomentato dai tempi e dalla vecchiaja. Andandolo a visitare, lo incontrai su la porta delle sue stanze mentre egli strascinavasi per uscire. Mi ravvisò; e fermatosi sul suo bastone, mi posò la mano su la spalla, dicendomi: Tu vieni a rivedere quest'animoso cavallo che si sente nel cuore la superbia della sua bella gioventù; ma che ora stramazza fra via e si rialza soltanto per le battiture della fortuna. - E' paventa di essere cacciato dalla sua cattedra, e di trovarsi costretto dopo settanta anni di studj e di gloria ad agonizzare elemosinando.


Milano, 11 Novembre

Chiesi la vita di Benvenuto Cellini a un librajo - Non l'abbiamo. Lo richiesi di un altro scrittore; e allora quasi dispettoso mi disse, ch'ei non vendeva libri italiani. La gente civile parla elegantemente francese, e appena intende lo schietto toscano. I pubblici atti e le leggi sono scritte in una cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano la ignoranza e la servitù di chi le detta. I Demosteni Cisalpini disputarono caldamente nel loro senato per esiliare con sentenza capitale dalla repubblica la lingua greca e la latina. S'è creata una legge che avea l'unico fine di sbandire da ogni impiego il matematico Gregorio Fontana, e Vincenzo Monti, poeta; non so cos'abbiano scritto contro alla Libertà, prima che fosse discesa a prostituirsi in Italia; so che sono presti a scrivere anche per essa. E quale pur fosse la loro colpa, la ingiustizia della punizione li assolve, e la solennità d'una legge creata per due soli individui accresce la loro celebrità. - Chiesi ov'erano le sale de' Consiglj Legislativi: pochi m'intesero; pochissimi mi risposero; e niuno seppe insegnarmi.


Milano, 4 Dicembre

Siati questa l'unica risposta a' tuoi consiglj. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l'universalità che serve; e i molti che brigano. Noi non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que' cani senza padrone a' quali non toccano né tozzi né percosse. - Che vuoi tu ch'io accatti protezioni ed impieghi in uno Stato ov'io sono reputato straniero, e donde il capriccio di ogni spia può farmi sfrattare? Tu mi esalti sempre il mio ingegno; sai tu quanto io vaglio? né più né meno di ciò che vale la mia entrata: se per altro io non facessi il letterato di corte, rintuzzando quel nobile ardire che irrita i potenti, e dissimulando la virtù e la scienza, per non rimproverarli della loro ignoranza, e delle loro scelleraggini. Letterati! - O! tu dirai, così da per tutto. - E sia così: lascio il mondo com'è; ma s'io dovessi impacciarmente vorrei o che gli uomini mutassero modo, o che mi facessero mozzare il capo sul palco; e questo mi pare più facile. Non che i tirannetti non si avveggano delle brighe; ma gli uomini balzati da' trivj al trono hanno d'uopo di faziosi che poi non possono contenere. Gonfj del presente, spensierati dell'avvenire, poveri di fama, di coraggio e d'ingegno, si armano di adulatori e di satelliti, da' quali, quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi: perpetua ruota di servitù, di licenza e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi ogni anno di più, rimorsi, ed infamia. Odilo un'altra volta: Non reciterò mai la parte del piccolo briccone.
Tanto e tanto so di essere calpestato; ma almen fra la turba immensa de' miei conservi, simile a quegli insetti che sono sbadatamente schiacciati da chi passeggia. Non mi glorio come tanti altri della servitù; né i miei tiranni si pasceranno del mio avvilimento. Serbino ad altri le loro ingiurie e i lor beneficj; e' vi son tanti che pur vi agognano! Io fuggirò il vituperio morendo ignoto. E quando io fossi costretto ad uscire dalla mia oscurità - anziché mostrarmi fortunato stromento della licenza o della tirannide, torrei d'essere vittima deplorata.
Che se mi mancasse il pane e il fuoco, e questa che tu mi additi fosse l'unica sorgente di vita - cessi il cielo ch'io insulti alla necessità di tanti altri che non potrebbero imitarmi - davvero, Lorenzo, io me n'andrei alla patria di tutti, dove non vi sono né delatori, né conquistatori, né letterati di corte, né principi; dove le ricchezze non coronano il delitto; dove il misero non è giustiziato non per altro se non perché è misero; dove un dì o l'altro verranno tutti ad abitare con me e a rimescolarsi nella materia, sotterra.
Aggrappandomi sul dirupo della vita, sieguo alle volte un lume ch'io scorgo da lontano e che non posso raggiungere mai. Anzi mi pare che s'io fossi con tutto il corpo dentro la fossa, e che rimanessi sopra terra solamente col capo, mi vedrei sempre quel lume sfolgorare sugli occhi. O Gloria! tu mi corri sempre dinanzi, e così mi lusinghi a un viaggio a cui le mie piante non reggono più. Ma dal giorno che tu più non sei la mia sola e prima passione, il tuo risplendente fantasma comincia a spegnersi e a barcollare - cade e si risolve in un mucchio d'ossa e di ceneri fra le quali io veggio sfavillar tratto tratto alcuni languidi raggi; ma ben presto io passerò camminando sopra il tuo scheletro, sorridendo della mia delusa ambizione. - Quante volte vergognando di morire ignoto al mio secolo ho accarezzato io medesimo le mie angosce mentre mi sentiva tutto il bisogno e il coraggio di terminarle! Né avrei forse sopravvissuto alla mia patria, se non mi avesse rattenuto il folle timore, che la pietra posta sopra il mio cadavere non seppellisse ad un tempo il mio nome. Lo confesso; sovente ho guardato con una specie di compiacenza le miserie d'Italia, poiché mi parea che la fortuna e il mio ardire riserbassero forse anche a me il merito di liberarla. Io lo diceva jer sera al Parini - addio: ecco il messo del banchiere che viene a pigliar questa lettera; e il foglio tutto pieno mi dice di finire. - Pur ho a dirti ancora assai cose: protrarrò di spedirtela sino a sabbato; e continuerò a scriverti. Dopo tanti anni di sì affettuosa e leale amicizia, eccoci, e forse eternamente, disgiunti. A me non resta altro conforto che di gemere teco scrivendoti; e così mi libero alquanto da' miei pensieri; e la mia solitudine diventa assai meno spaventosa. Sai quante notti io mi risveglio, e m'alzo, e aggirandomi lentamente per le stanze t'invoco! siedo e ti scrivo; e quelle carte sono tutte macchiate di pianto e piene de' miei pietosi delirj e de' miei feroci proponimenti. Ma non mi dà il cuore d'inviartele. Ne serbo taluna, e molte ne brucio. Quando poi il Cielo mi manda questi momenti di calma, io ti scrivo con quanto più di fermezza mi è possibile per non contristarti del mio immenso dolore. Né mi stancherò di scriverti; tutt'altro conforto è perduto; né tu, mio Lorenzo, ti stancherai di leggere queste carte ch'io senza vanità, senza studio e senza rossore ti ho sempre scritto ne' sommi piaceri e ne' sommi dolori dell'anima mia. Serbale. Presento che un dì ti saranno necessarie per vivere, almeno come potrai, col tuo Jacopo.
Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli. Egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall'altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpj suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S'assise sopra uno di que' sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch'io m'abbia mai conosciuto; e d'altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione: non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l'amore figliale - e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e' si vedano presso il patibolo - ma ladroncelli, tremanti, saccenti - più onesto insomma è tacerne. - A quelle parole io m'infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: Ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. - Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole - io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, non servirebbero sì vilmente. - Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il braccio, mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi perch'io tornassi a sedermi: E pensi, tu, proruppe, che s'io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni?
Allora io guardai nel passato - allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que' genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. - No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: sono figlio di madre affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell'aria - essa afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure s'ella - spiasse tutti gli occulti miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l'unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria. - Egli sorrise mestamente; e poiché s'accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: - Forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma - credimi; la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l'altro quarto a' loro delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero? Chiunque s'intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava per l'universo un nemico al popolo Romano? - Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d'ingegno quale sei tu, sarà sempre o l'ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da' tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. - Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri e la malignità de' tuoi concittadini e la corruzione de' tempi, potessi aspirare al tuo intento; di'? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall'intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l'onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore, avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. - Ti avanza ancora un seggio fra' capitani; il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t'aita a salire. Ma - o figliuolo! l'umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara. -
Tacque - ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato. - Il vecchio mi guardò - Se tu né speri, né temi fuori di questo mondo - e mi stringeva la mano - ma io! - Alzò gli occhi al Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s'ei lassù contemplasse tutte le tue speranze. - Intesi un calpestio che s'avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra' tiglj; ci rizzammo; e l'accompagnai sino alle sue stanze.
Ah s'io non mi sentissi oramai spento quel fuoco celeste che nel tempo della fresca mia gioventù spargeva raggi su tutte le cose che mi stavano intorno, mentre oggi vo brancolando in una vota oscurità! s'io potessi avere un tetto ove dormire sicuro; se non mi fosse conteso di rinselvarmi fra le ombre del mio romitorio; se un amore disperato che la mia ragione combatte sempre, e che non può vincere mai - questo amore ch'io celo a me stesso, ma che riarde ogni giorno e che s'è fatto onnipotente, immortale - ahi! la Natura ci ha dotati di questa passione che è indomabile in noi forse più dell'istinto fatale della vita - se io potessi insomma impetrare un anno solo di calma, il tuo povero amico vorrebbe sciogliere ancora un voto e poi morire. Io odo la mia patria che grida: - SCRIVI CIÒ CHE VEDESTI. MANDERÒ LA MIA VOCE DALLE ROVINE, E TI DETTERÒ LA MIA STORIA. PIANGERANNO I SECOLI SU LA MIA SOLITUDINE; E LE GENTI SI AMMAESTRERANNO NELLE MIE DISAVVENTURE. IL TEMPO ABBATTE IL FORTE: E I DELITTI DI SANGUE SONO LAVATI NEL SANGUE. - E tu lo sai, Lorenzo, avrei coraggio di scrivere; ma l'ingegno va morendo con le mie forze, e vedo che fra pochi mesi avrò fornito questo mio angoscioso pellegrinaggio.
Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati, su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro la forza, perché almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? Alzate la voce in nome di tutti, e dite al mondo: Che siamo sfortunati, ma né ciechi né vili; che non ci manca il coraggio, ma la possanza. - Se avete braccia in catene, perché inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui né i tiranni né la fortuna, arbitri d'ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Abbiate bensì compassione a' vostri concittadini, e non istigate vanamente le lor passioni politiche; ma sprezzate l'universalità de' vostri contemporanei: il genere umano d'oggi ha le frenesie e la debolezza della decrepitezza; ma l'umano genere, appunto quand'è prossimo a morte, rinasce vigorosissimo. Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d'udirvi, e forti da vendicarvi. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poi che non potete opprimerli, mentre vivono, co' pugnali, opprimeteli almeno con l'obbrobrio per tutti i secoli futuri. Se ad alcuni di voi è rapita la patria, la tranquillità, e le sostanze; se niuno osa divenire marito; se tutti paventano il dolce nome di padre, per non procreare nell'esilio e nel dolore nuovi schiavi e nuovi infelici, perché mai accarezzate così vilmente la vita ignuda di tutti i piaceri? Perché non la consecrate all'unico fantasma ch'è duce degli uomini generosi, la gloria? Giudicherete l'Europa vivente, e la vostra sentenza illuminerà le genti avvenire. L'umana viltà vi mostra terrori e pericoli; ma voi siete forse immortali? fra l'avvilimento delle carceri e de' supplicj v'innalzerete sovra il potente, e il suo futuro contro di voi accrescerà il suo vituperio e la vostra fama.


Milano, 6 Febbraio 1799

Diriggi le tue lettere a Nizza di Provenza perch'io domani parto verso Francia: e chi sa? forse assai più lontano: certo che in Francia non mi starò lungamente. Non rammaricarti, o Lorenzo, di ciò; e consola quanto tu puoi la povera madre mia. Tu dirai forse ch'io dovrei fuggire prima me stesso, e che se non v'ha luogo dov'io trovi stanza, sarebbe omai tempo ch'io m'acquetassi. È vero, non trovo stanza; ma qui peggio che altrove. La stagione, la nebbia perpetua, quest'aria morta, certe fisonomie - e poi - forse m'inganno - ma parmi di trovar poco cuore; né posso incolparli; tutto si acquista; ma la compassione e la generosità, e molto più certa delicatezza di animo nascono sempre con noi, e non le cerca se non chi le sente. - Insomma domani. E mi si è fitta in fantasia tale necessità di partire, che queste ore d'indugio mi pajono anni di carcere.
Malaugurato! perché mai tutti i suoi sensi si risentono soltanto al dolore, simili a quelle membra scorticate che all'alito più blando dell'aria si ritirano? goditi il mondo com'è, e tu vivrai più riposato e men pazzo. - Ma se a chi mi declama sì fatti sermoni, io dicessi: Quando ti salta addosso la febbre, fa che il polso ti batta più lento, e sarai sano - non avrebbe egli ragione da credermi farneticante di peggior febbre? come dunque potrò io dar leggi al mio sangue che fluttua rapidissimo? e quando urta nel cuore io sento che vi si ammassa bollendo, e poi sgorga impetuosamente; e spesso all'improvviso e talora fra il sonno par che voglia spaccarmisi il petto. - O Ulissi! eccomi ad obbedire alla vostra saviezza, a patti ch'io, quando vi veggo dissimulatori, agghiacciati, incapaci di soccorrere alla povertà senza insultarla, e di difendere il debole dalla ingiustizia; quando vi veggo, per isfamare le vostre plebee passioncelle, prostrati appié del potente che odiate e che vi disprezza, allora io possa trasfondere in voi una stilla di questa mia fervida bile che pure armò spesso la mia voce e il mio braccio contro la prepotenza; che non mi lascia mai gli occhi asciutti né chiusa la mano alla vista della miseria; e che mi salverà sempre dalla bassezza. Voi vi credete savi, e il mondo vi predica onesti: ma toglietevi la paura! - Non vi affannate dunque; le parti sono pari: Dio vi preservi dalle mie pazzie; ed io lo prego con tutta l'espansione dell'anima perché mi preservi dalla vostra saviezza. - E s'io scorgo costoro, anche quando passano senza vedermi, io corro subitamente a cercare rifugio nel tuo petto, o Lorenzo. Tu rispetti amorosamente le mie passioni, quantunque tu abbia sovente veduto il leone ammansarsi alla sola tua voce. Ma ora! Tu il vedi: ogni consiglio e ogni ragione è funesta per me. Guai s'io non obbedissi al mio cuore! - la Ragione? - è come il vento; ammorza le faci, ed anima gl'incendj. Addio frattanto.


Ore 10, della mattina

Ripenso - e sarà meglio che tu non mi scriva finché tu non abbia mie lettere. Prendo il cammino delle Alpi Liguri per iscansare i ghiacci del Moncenis: sai quanto micidiale m'è il freddo.


Ore 1

Nuovo inciampo: hanno a passare ancora due giorni prima ch'io riabbia il passaporto. Consegnerò questa lettera nel punto ch'io sarò per salire in calesse.


8 Febbraro, ore 1 1/2

Eccomi con le lagrime su le tue lettere. Riordinando le mie carte mi sono venuti sott'occhio questi pochi versi che tu mi scrivevi sotto una lettera di mia madre due giorni innanzi ch'io abbandonassi i miei colli. - «T'accompagnano tutti i miei pensieri, o mio Jacopo: t'accompagnano i miei voti, e la mia amicizia, che vivrà eterna per te. Io sarò sempre l'amico tuo e il tuo fratello d'amore; e dividerò teco anche l'anima mia.» Sai tu ch'io vo ripetendo queste parole, e mi sento sì fieramente percosso che sono in procinto di venire a gittarmiti al collo e a spirare fra le tue braccia? Addio addio. Tornerò.


Ore 3

Sono andato a dire addio al Parini. - Addio, mi disse, o giovine sfortunato. Tu porterai da per tutto e sempre con te le tue generose passioni alle quali non potrai soddisfare giammai. Tu sarai sempre infelice. Io non posso consolarti co' miei consiglj, perché neppure giovano alle sventure mie derivanti dal medesimo fonte. Il freddo dell'età ha intorpidito le mie membra; ma il cuore - veglia ancora. Il solo conforto ch'io possa darti è la mia pietà: e tu la porti tutta con te. Fra poco io non vivrò più, ma se le mie ceneri serberanno alcun sentimento - se troverai qualche sollievo querelandoti su la mia sepoltura, vieni. - Io proruppi in dirottissime lagrime, e lo lasciai: ed uscì seguendomi con gli occhi mentr'io fuggiva per quel lunghissimo corridojo, e intesi che ei tuttavia mi diceva con voce piangente - addio.


Ore 9 della sera

Tutto è in punto: I cavalli sono ordinati per la mezzanotte - vado a coricarmi così vestito sino a che giungano: mi sento sì stracco! - addio frattanto; addio Lorenzo - Scrivo il tuo nome e ti saluto con tenerezza e con certa superstizione ch'io non ho provato mai mai. Ci rivedremo - se mai dovessi! no, io non morrei senza rivederti e senza ringraziarti per sempre - e te, mia Teresa: ma poiché il mio infelicissimo amore costerebbe la tua pace ed il pianto della tua famiglia, io fuggo senza sapere dove mi trascinerà il mio destino: l'Alpi e l'Oceano e un mondo intero, s'è possibile, ci divida.


Genova, 11 Febbraro

Ecco il Sole più bello! Tutte le mie fibre sono in un tremito soave perché risentono la giocondità di questo Cielo raggiante e salubre. Sono pure contento di essere partito! proseguirò fra poche ore; non so ancora dirti dove mi fermerò, né quando terminerà il mio viaggio: ma per li 16 sarò in Tolone.


Dalla Pietra, 15 Febbraro


Strade alpestri, montagne orride dirupate, tutto il rigore del tempo, tutta la stanchezza e i fastidj del viaggio, e poi?

Scrivo da un paesetto appié delle Alpi Marittime. E mi fu forza di sostare perché la posta è senza cavalcatura; né so quando potrò partire. Eccomi dunque sempre con te, e sempre con nuove afflizioni: sono destinato a non movere passo senza incontrare lungo la mia via dolore. - In questi due giorni io usciva verso mezzodì un miglio forse lungi dall'abitato, passeggiando fra certi oliveti che stanno verso la spiaggia del mare: io vado a consolarmi a' raggi del Sole, e a bere di quel aere vivace; quantunque anche in questo tepido clima il verno di questo anno è clemente meno assai dell'usato. E là mi pensava di essere tutto solo, o almeno sconosciuto a que' viventi che passavano; ma appena mi ridussi a casa, Michele il quale salì a ravviarmi il fuoco, mi venia raccontando, come certo uomo quasi mendico capitato poc'anzi in questa balorda osteria gli chiese, s'io era un giovine che avea già tempo studiato in Padova; non gli sapea dire il nome, ma porgeva assai contrassegni e di me e di que' tempi, e nominava te pure - Davvero, seguì a dire Michele, io mi trovava imbrogliato; gli risposi nonostante ch'ei s'apponeva: parlava veneziano; ed è pure la dolce cosa il trovare in queste solitudini un compatriota - e poi - è così stracciato! insomma io gli promisi - forse può dispiacere al signore - ma mi ha fatto tanta compassione, ch'io gli promisi di farlo venire; anzi sta qui fuori. - E venga, io dissi a Michele - e aspettandolo mi sentiva tutta la persona inondata d'una subitanea tristezza. Il ragazzo rientrò con un uomo alto, macilento; parea giovine e bello; ma il suo volto era contraffatto dalle rughe del dolore. Fratello! io era impellicciato e al fuoco; stava gittato oziosamente nella seggiola vicina il mio larghissimo tabarro; l'oste andava su e giù allestendomi da desinare - e quel misero; era appena in farsetto di tela ed io intirizziva solo a guardarlo. Forse la mia mesta accoglienza e il meschino suo stato l'hanno disanimato alla prima; ma poi da poche mie parole s'accorse che il tuo Jacopo non è nato per disanimare gl'infelici; e s'assise con me a riscaldarsi, narrandomi quest'ultimo lagrimevole anno della sua vita. Mi disse: Io conobbi famigliarmente uno scolare che era dì e notte a Padova con voi - e ti nominò - quanto tempo è ormai ch'io non ne odo novella! ma spero che la fortuna non gli sarà così iniqua. Io studiava allora - non ti dirò, mio Lorenzo, chi egli è. Dovrò io contristarti con le sciagure di un uomo che hai conosciuto felice, e che tu forse ami ancora? è troppo anche se la sorte ti ha condannato ad affliggerti sempre per me.
Ei proseguiva: Oggi venendo da Albenga, prima di arrivare nel paese v'ho scontrato lungo la marina. Voi non vi siete avveduto com'io mi voltava spesso a considerarvi, e mi parea di avervi raffigurato; ma non conoscendovi che di vista, ed essendo scorsi quattro anni, sospettava di sbagliare. Il vostro servo poi mi accertò.
Lo ringraziai perch'ei fosse venuto a vedermi; gli parlai di te; e voi mi siete anche più grato, gli dissi, perché m'avete recato il nome di Lorenzo. - Non ti ripeterò il suo doloroso racconto. Emigrò per la pace di Campo Formio, e s'arruolò Tenente nell'artiglieria Cisalpina. Querelandosi un giorno delle fatiche e delle angarie che gli parea di sopportare, gli fu da un amico suo proferito un impiego. Abbandonò la milizia. Ma l'amico, l'impiego, e il tetto gli mancarono. Tapinò per l'Italia, e s'imbarcò a Livorno. - Ma mentr'esso parlava, io udiva nella camera contigua un rammarichio di bambino e un sommesso lamento; e m'avvidi ch'egli andavasi soffermando, e ascoltava con certa ansietà: e quando quel rammarichio taceva, ei ripigliava. - Forse, gli diss'io, saranno passaggeri giunti pur ora. - No, mi rispose; è la mia figlioletta di tredici mesi che piange.
E seguì a narrarmi, ch'ei mentre era Tenente s'ammogliò a una fanciulla di povero stato, e che le perpetue marcie a cui la giovinetta non potea reggere, e lo scarso stipendio lo stimolarono anche più a confidare in colui che poi lo tradì. Da Livorno navigò a Marsiglia, così alla ventura: e si trascinò per tutta Provenza; e poi nel Delfinato, cercando d'insegnare l'Italiano, senza mai potersi trovare né lavoro né pane; ed ora tornavasi d'Avignone a Milano. Io mi rivolgo addietro, continuò, e guardo il tempo passato, e non so come sia passato per me. Senza danaro; seguitato sempre da una moglie estenuata, co' piedi laceri, con le braccia spossate dal continuo peso di una creatura innocente che domanda alimento all'esausto petto di sua madre, e che strazia con le sue strida le viscere degli sfortunati suoi genitori, mentre non possiamo acquetarla con la ragione delle nostre disgrazie. Quante giornate arsi, quante notti assiderati abbiamo dormito nelle stalle fra' giumenti, o come le bestie nelle caverne! cacciato di città in città da tutti i governi, perché la mia indigenza mi serrava la porta de' magistrati, o non mi concedeva di dar conto di me: e chi mi conosceva, o non volle più conoscermi, o mi voltò le spalle. - E sì, gli diss'io, so che in Milano e altrove molti de' nostri concittadini emigrati sono tenuti liberali. - Dunque, soggiunse, la mia fiera fortuna li ha fatti crudeli unicamente per me. Anche le persone di ottimo cuore si stancano di fare del bene; sono tanti i tapini! Io non lo so - ma il tale - il tale (e i nomi di questi uomini ch'io scopriva così ipocriti mi erano, Lorenzo, tante coltellate nel cuore) chi mi ha fatto aspettare assai volte vanamente alla sua porta; chi dopo sviscerate promesse, mi fe' camminare molte miglia sino al suo casino di diporto, per farmi la limosina di poche lire: il più umano mi gittò un tozzo di pane senza volermi vedere; e il più magnifico mi fece così sdruscito passare fra un corteggio di famigli e di convitati, e dopo d'avermi rammemorata la scaduta prosperità della mia famiglia, e inculcatomi lo studio e la probità, mi disse amichevolmente che non mi rincrescesse di ritornare domattina per tempo. Tornatomi, ritrovai nell'anticamera tre servidori, uno de' quali mi disse che il padrone dormiva; e mi pose nelle mani due scudi e una camicia. Ah signore! non so se voi siete ricco; ma il vostro aspetto, e que' sospiri mi dicono che voi siete sventurato e pietoso. Credetemi; io vidi per prova che il danaro fa parere benefico anche l'usurajo, e che l'uomo splendido di rado si degna di locare il suo beneficio fra' cenci. - Io taceva; ed ei rizzandosi per accommiatarsi riprese a dire: I libri m'insegnavano ad amare gli uomini e la virtù; ma i libri, gli uomini e la virtù mi hanno tradito. Ho dotta la testa; sdegnato il cuore; e le braccia inette ad ogni utile mestiere. Se mio padre udisse dalla terra ove sta seppellito con che gemito grave io lo accuso di non avere fatti i suoi cinque figliuoli legnajuoli o sartori! Per la misera vanità di serbare la nobiltà senza la fortuna, ha sprecato per noi tutto quel poco che ei possedeva, nelle università e nel bel mondo. E noi frattanto? - Non ho mai saputo che si abbia fatto la fortuna degli altri fratelli miei. Scrissi molte lettere; non però vidi risposta: o sono miseri, o sono snaturati. Ma per me, ecco il frutto delle ambiziose speranze del padre mio. Quante volte io sono condotto o dalla notte, o dalla fame a ricoverarmi in una osteria; ma entrandovi, non so come pagherò la mattina imminente. Senza scarpe, senza vesti - Ah copriti! gli diss'io, rizzandomi; e lo coprii del mio tabarro. E Michele, che essendo venuto già in camera per qualche faccenda vi s'era fermato poco discosto ascoltando, si avvicinò asciugandosi gli occhi col rovescio della mano, e gli aggiustava in dosso quel tabarro: ma con certo rispetto, come s'ei temesse d'insultare alla scaduta fortuna di quella persona così ben nata.
O Michele! io mi ricordo che tu potevi vivere libero sino al dì che tuo fratello maggiore avviando una botteghetta, ti chiamò seco; eppure scegliesti di rimanerti con me, benché servo: io noto l'amoroso rispetto per cui tu dissimuli gl'impeti miei fantastici; e taci anche le tue ragioni ne' momenti dell'ingiusta mia collera: e vedo con quanta ilarità te la passi fra le noje della mia solitudine; e vedo la fede con che sostieni i travaglj di questo mio pellegrinaggio. Spesso col tuo giovale sembiante mi rassereni; ma quando io taccio le intere giornate, vinto dal mio nerissimo umore, tu reprimi la gioja del tuo cuore contento per non farmi accorgere del mio stato. Pure! questo atto gentile verso quel disgraziato ha santificata la mia riconoscenza verso di te. Tu se' il figliuolo della mia nutrice, tu se' allevato nella mia casa; né io t'abbandonerò mai. Ma io t'amo ancor più poiché mi avvedo che il tuo stato servile avrebbe forse indurita la bella tua indole, se non ti fosse stata coltivata dalla mia tenera madre, da quella donna che con l'animo suo delicato, e co' soavi suoi modi fa cortese e amoroso tutto quello che vive in lei.
Quando fui solo, diedi a Michele quel più che ho potuto; ed esso, mentre io desinava, lo recò a quel derelitto. Appena mi sono risparmiato tanto da arrivare a Nizza dove negozierò le cambiali ch'io né banchi di Genova mi feci spedire per Tolone e Marsiglia. - Stamattina quando ei, prima di andarsene, è venuto con la sua moglie e con la sua creatura per ringraziarmi, ed io vedeva con quanto giubilo mi replicava: Senza di voi io sarei oggi andato cercando il primo spedale - io non ho avuto animo di rispondergli; ma il mio cuore dicevagli: Ora tu hai come vivere per quattro mesi - per sei - e poi? La bugiarda speranza ti guida intanto per mano, e l'ameno viale dove t'innoltri mette forse a un sentiero più disastroso. Tu cercavi il primo spedale - e t'era forse poco discosto l'asilo della fossa. Ma questo mio poco soccorso, né la sorte mi concede di ajutarti davvero, ti ridarà più vigore da sostenere di nuovo e per più tempo que' mali che già t'avevano quasi consunto e liberato per sempre. Goditi intanto del presente - ma quanti disagi hai pur dovuto durare perché questo tuo stato, che a molti pure sarebbe affannoso, a te paja sì lieto! Ah se tu non fossi padre e marito, io ti darei forse un consiglio! - e senza dirgli parola, l'ho abbracciato; e mentre partivano, io li guardava, stretto d'un crepacuore mortale.
Jer sera spogliandomi io pensava: Perché mai quell'uomo emigrò dalla sua patria? perché s'ammogliò? perché mai lasciò un pane sicuro? e tutta la storia di lui pareva il romanzo di un pazzo; ed io sillogizzava cercando ciò ch'egli per non strascinarmi dietro tutte quelle sciagure, avrebbe potuto fare, o non fare. Ma siccome ho più volte udito infruttuosamente ripetere sì fatti perché, ed ho veduto che tutti fanno da medici nelle altrui malattie - io sono andato a dormire borbottando: O mortali che giudicate inconsiderato tutto quello che non è prospero, mettetevi una mano sul petto e poi confessate - siete più savj, o più fortunati?
Or credi tu vero tutto ciò ch'ei narrava? - Io? Credo ch'egli era mezzo nudo, ed io vestito; ho veduto una moglie languente; ho udito le strida di una bambina. Mio Lorenzo, si vanno pure cercando con la lanterna nuove ragioni contro del povero perché si sente nella coscienza il diritto che la Natura gli ha dato su le sostanze del ricco. - Eh! le sciagure non derivano per lo più che da' vizj; e in costui forse derivarono da un delitto. - Forse? per me non lo so, né lo indago. Io giudice, condannerei tutti i delinquenti; ma io uomo, ah! penso al ribrezzo col quale nasce la prima idea del delitto; alla fame e alle passioni che strascinano a consumarlo; agli spasimi perpetui; al rimorso con che l'uomo si sfama del frutto insanguinato dalla colpa, alle carceri che il reo si mira sempre spalancate per seppellirlo - e se poi scampando dalla giustizia, ne paga il fio col disonore e con l'indigenza, dovrò io abbandonarlo alla disperazione ed a nuovi delitti? è egli solo colpevole? la calunnia, il tradimento del secreto, la seduzione, la malignità, la nera ingratitudine sono delitti più atroci, ma sono essi neppur minacciati? e chi dal delitto ha ricavato campi ed onore! - O legislatori, o giudici, punite: ma talvolta aggiratevi ne' tuguri della plebe e ne' sobborghi di tutte le città capitali, e vedrete ogni giorno un quarto della popolazione che svegliandosi su la paglia non sa come placare le supreme necessità della vita. Conosco che non si può rimutare la società; e che l'inedia, le colpe, e i supplizj sono anch'essi elementi dell'ordine e della prosperità universale; però si crede che il mondo non possa reggersi senza giudici né senza patiboli; ed io lo credo poiché tutti lo credono. Ma io? non sarò giudice mai. In questa gran valle dove l'umana specie nasce, vive, muore, si riproduce, s'affanna, e poi torna a morire, senza saper come né perché, io non distinguo che fortunati e sfortunati. E se incontro un infelice, compiango la nostra sorte; e verso quanto balsamo posso su le piaghe dell'uomo: ma lascio i suoi meriti e le sue colpe su la bilancia di Dio.


Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro

Tu sei disperatamente infelice; tu vivi fra le agonie della morte, e non hai la sua tranquillità: ma tu dèi tollerarle per gli altri. - Così la Filosofia domanda agli uomini un eroismo da cui la Natura rifugge. Chi odia la propria vita può egli amare il minimo bene che è incerto di recare alla Società e sacrificare a questa lusinga molti anni di pianto? e come potrà sperare per gli altri colui che non ha desiderj, né speranze per sé; e che abbandonato da tutto, abbandona se stesso? - Non sei misero tu solo. - Pur troppo! ma questa consolazione non è anzi argomento dell'invidia secreta che ogni uomo cova dell'altrui prosperità? La miseria degli altri non iscema la mia. Chi è tanto generoso da addossarsi le mie infermità? e chi anco volendo, il potrebbe? avrebbe forse più coraggio da comportarle; ma cos'è il coraggio voto di forza? Non è vile quell'uomo che è travolto dal corso irresistibile di una fiumana; bensì chi ha forze da salvarsi e non le adopra. Ora dov'è il sapiente che possa costituirsi giudice delle nostre intime forze? chi può dare norma agli effetti delle passioni nelle varie tempre degli uomini e delle incalcolabili circostanze onde decidere: Questi è un vile, perché soggiace; quegli che sopporta, è un eroe? mentre l'amore della vita è così imperioso che più battaglia avrà fatto il primo per non cedere, che il secondo per sopportare.
Ma i debiti i quali tu hai verso la Società? - Debiti? forse perché mi ha tratto dal libero grembo della Natura, quand'io non aveva né la ragione, né l'arbitrio di acconsentirvi, né la forza di oppormivi, e mi educò fra' suoi bisogni e fra' suoi pregiudizj? - Lorenzo, perdona s'io calco troppo su questo discorso tanto da noi disputato. Non voglio smoverti dalla tua opinione sì avversa alla mia; vo' bensì dileguare ogni dubbio da me. Saresti convinto al pari di me, se ti sentissi le piaghe mie; il Cielo te le risparmi! - Ho io contratto questi debiti spontaneamente? e la mia vita dovrà pagare, come uno schiavo, i mali che la Società mi procaccia, solo perché gli intitola beneficj? e sieno beneficj: ne godo e li ricompenso fino che vivo; e se nel sepolcro non le sono io di vantaggio, qual bene ritraggo io da lei nel sepolcro? O amico mio! ciascun individuo è nemico nato della Società, perché la Società è necessaria nemica degli individui. Poni che tutti i mortali avessero interesse di abbandonare la vita, credi tu che la sosterrebbero per me solo? e s'io commetto un'azione dannosa a' più, io sono punito; mentre non mi verrà fatto mai di vendicarmi delle loro azioni, quantunque ridondino in sommo mio danno. Possono ben essi pretendere ch'io sia figliuolo della grande famiglia; ma io rinunziando e a' beni e a' doveri comuni posso dire: Io sono un mondo in me stesso: e intendo d'emanciparmi perché mi manca la felicità che mi avete promesso. Che s'io dividendomi non trovo la mia porzione di libertà; se gli uomini me l'hanno invasa perché sono più forti; se mi puniscono perché la ridomando - non gli sciolgo io dalle loro bugiarde promesse e dalle mie impotenti querele cercando scampo sotterra? Ah! que' filosofi che hanno evangelizzato le umane virtù, la probità naturale, la reciproca benevolenza - sono inavvedutamente apostoli degli astuti, ed adescano quelle poche anime ingenue e bollenti le quali amando schiettamente gli uomini per l'ardore di essere riamate, saranno sempre vittime tardi pentite della loro leale credulità. -
Eppur quante volte tutti questi argomenti della ragione hanno trovato chiusa la porta del mio cuore, perch'io tuttavia mi sperava di consecrare i miei tormenti all'altrui felicità! Ma! - per il nome d'Iddio, ascolta e rispondimi. A che vivo? di che pro ti son io, io fuggitivo fra queste cavernose montagne? di che onore a me stesso, alla mia patria, a' miei cari? V'ha egli diversità da queste solitudini alla tomba? La mia morte sarebbe per me la meta de' guai, e per voi tutti la fine delle vostre ansietà sul mio stato. Invece di tante ambasce continue, io vi darei un solo dolore - tremendo, ma ultimo: e sareste certi della eterna mia pace. I mali non ricomprano la vita.
E penso ogni giorno al dispendio di cui da più mesi sono causa a mia madre; né so come ella possa far tanto. S'io mi tornassi, troverei casa nostra vedova del suo splendore. E incominciava già ad oscurarsi, molto innanzi ch'io mi partissi, per le pubbliche e private estorsioni le quali non restano di percuoterci. Né però quella madre benefattrice cessa dalle sue cure: trovai dell'altro denaro a Milano; ma queste affettuose liberalità le scemeranno certamente quegli agi fra' quali nacque. Pur troppo fu moglie mal avventurata! le sue sostanze sostengono la mia casa che rovinava per le prodigalità di mio padre; e l'età di lei mi fa ancora più amari questi pensieri. - Se sapesse! tutto è vano per lo sfortunato suo figliuolo. E s'ella vedesse qui dentro - se vedesse le tenebre e la consunzione dell'anima mia! deh! non gliene parlare, o Lorenzo: ma vita è questa? - Ah sì! io vivo ancora; e l'unico spirito de' miei giorni è una sorda speranza che li rianima sempre, e che pure tento di non ascoltare: non posso - e s'io voglio disingannarla, la si converte in disperazione infernale. - Il tuo giuramento, o Teresa, proferirà ad un tempo la mia sentenza - ma finché tu se' libera; - e il nostro amore è tuttavia nell'arbitrio delle circostanze - dell'incerto avvenire - e della morte, tu sarai sempre mia. Io ti parlo, e ti guardo, e ti abbraccio: e mi pare che così da lontano tu senta l'impressioni de' miei baci e delle mie lagrime. Ma quando tu sarai offerita dal padre tuo come olocausto di riconciliazione su l'altare di Dio - quando il tuo pianto avrà ridata la pace alla tua famiglia - allora - non io - ma la disperazione sola, e da sé, annienterà l'uomo e le sue passioni. E come può spegnersi, mentre vivo, il mio amore? e come non ti sedurranno sempre nel tuo secreto le sue dolci lusinghe? ma allora più non saranno sante e innocenti. Io non amerò, quando sarà d'altri, la donna che fu mia - amo immensamente Teresa; ma non la moglie d'Odoardo - ohimè! tu forse mentre scrivo sei nel suo letto! - Lorenzo! - Ahi Lorenzo! eccolo quel demonio mio persecutore; torna a incalzarmi, a premermi, a investirmi, e m'accieca l'intelletto, e mi ferma perfino le palpitazioni del cuore, e mi fa tutto ferocia, e vorrebbe il mondo finito con me. - Piangete tutti - e perché mi caccia fra le mani un pugnale, e mi precede, e si volge guardando se io lo sieguo, e mi addita dov'io devo ferire? Vieni tu dall'altissima vendetta del Cielo? - E così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su la polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, che altre volte ho candidamente adorato, ch'io non offesi, di cui dubito sempre - e poi tremo, e l'adoro. Dov'io cerco ajuto? non in me, non negli uomini: la Terra io la ho insanguinata, e il Sole è negro.

Alfine eccomi in pace! - Che pace? stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v'è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito de' viandanti assassinati. - Là giù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell'Alpi altre Alpi di neve che s'immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde - da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi.
I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? - Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e l'intelletto, e la voce, sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude memorie: poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell'antico letargo.
Così grido quand'io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi intorno io cerco, né trovo più la mia patria. - Ma poi dico: Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall'ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a' destini. Noi argomentiamo su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell'immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita normale, pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L'universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell'altra. Io guardando da queste Alpi l'Italia piango e fremo, e invoco contro agl'invasori vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati, quando i Romani rapivano il mondo, cercavano oltre a' mari e a' deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl'Iddii de' vinti, incatenevano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri, li ritorceano contro le proprie viscere. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda. Così Alessandro rovesciò l'impero di Babilonia, e dopo avere passando arsa gran parte della terra, si corrucciava che non vi fosse un altro universo. Così gli Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano della stessa religione e nipoti de' medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de' Cesari, de' Neroni, de' Costantini, de' Vandali, e de' Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue d'innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall'Oceano portato a contaminare d'infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La Terra è una foresta di belve. La fame, i diluvj, e la peste sono ne' provvedimenti della Natura come la sterilità di un campo che prepara l'abbondanza per l'anno vegnente: e chi sa? fors'anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l'avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, finché un'altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d'ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch'essi credono lor propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de' capisette, e de' fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de' volghi si stimano saliti tant'alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell'oriuolo. Quando una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de' loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E perché l'umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de' conquistatori: e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli e sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.
Ma mentre io guardo dall'alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell'uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico - tu ami - te aspetta una turba di miseri, a cui se' caro, e che forse sperano in te - dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t'ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui - va, prostrati; ma all'are domestiche.
O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl'insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? - Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null'altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte - voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie - e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da' sospiri di quella celeste fanciulla ch'io credeva nata per me, ma che gl'interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.


Alessandria, 29 Febbraro

Da Nizza invece d'innoltrarmi in Francia, ho preso la volta del Monferrato. Stasera dormirò a Piacenza. Giovedì scriverò da Rimino. Ti dirò allora - Or addio.


[Indice][Indietro][Avanti]