Inferno: Canto IX Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si fermò com'uom ch'ascolta; ché l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta. «Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse. Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!». I' vidi ben sì com'ei ricoperse lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne, perch'io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. «In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?». Questa question fec'io; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado. Ver è ch'altra fiata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell'è 'l più basso loco e 'l più oscuro, e 'l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so 'l cammin; però ti fa sicuro. Questa palude che 'l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u' non potemo intrare omai sanz'ira». E altro disse, ma non l'ho a mente; però che l'occhio m'avea tutto tratto ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, «Guarda», mi disse, «le feroci Erine. Quest'è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme, e gridavan sì alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto. «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; «mal non vengiammo in Teseo l'assalto». «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso». Così disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani. E già venia su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetuoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz'alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. i occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo». Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid'io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quell'aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell'angoscia parea lasso. Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta, e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno. «O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l'orribil soglia, «ond'esta oltracotanza in voi s'alletta? Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v'ha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo». Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver' la terra, sicuri appresso le parole sante. Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, com'io fui dentro, l'occhio intorno invio; e veggio ad ogni man grande campagna piena di duolo e di tormento rio. Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt'il loco varo, così facevan quivi d'ogni parte, salvo che 'l modo v'era più amaro; ché tra gli avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verun'arte. Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n'uscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi. E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell'arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?». Ed elli a me: «Qui son li eresiarche con lor seguaci, d'ogni setta, e molto più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». E poi ch'a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martiri e li alti spaldi. Inferno: Canto X Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. «O virtù somma, che per li empi giri mi volvi», cominciai, «com'a te piace, parlami, e sodisfammi a' miei disiri. La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt'i coperchi, e nessun guardia face». E quelli a me: «Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là sù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno. Però a la dimanda che mi faci quinc'entro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci». E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m'hai non pur mo a ciò disposto». «O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio a la qual forse fui troppo molesto». Subitamente questo suono uscìo d'una de l'arche; però m'accostai, temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s'è dritto: da la cintola in sù tutto 'l vedrai». Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte com'avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: «Le parole tue sien conte». Com'io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». Io ch'era d'ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel'apersi; ond'ei levò le ciglia un poco in suso; poi disse: «Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fiate li dispersi». «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogni parte», rispuos'io lui, «l'una e l'altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell'arte». Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata. Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco; e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? e perché non è teco?». E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena. Di subito drizzato gridò: «Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora. Ma quell'altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa: e sé continuando al primo detto, «S'elli han quell'arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell'arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontr'a' miei in ciascuna sua legge?». Ond'io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio». Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu' io sol», disse, «né certo sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fu' io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto». «Deh, se riposi mai vostra semenza», prega' io lui, «solvetemi quel nodo che qui ha 'nviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo». «Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s'appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta». Allor, come di mia colpa compunto, dissi: «Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato è co'vivi ancor congiunto; e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l fei perché pensava già ne l'error che m'avete soluto». E già 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu' istava. Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: qua dentro è 'l secondo Federico, e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio». Indi s'ascose; e io inver' l'antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?». E io li sodisfeci al suo dimando. «La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te», mi comandò quel saggio. «E ora attendi qui», e drizzò 'l dito: «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell'occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il viaggio». Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede, che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo. Inferno: Canto XI In su l'estremità d'un'alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio venimmo sopra più crudele stipa; e quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta che dicea: "Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta". «Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo». Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che 'l tempo non passi perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso». «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», cominciò poi a dir, «son tre cerchietti di grado in grado, come que' che lassi. Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti. D'ogni malizia, ch'odio in cielo acquista, ingiuria è 'l fine, ed ogni fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. Ma perché frode è de l'uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale. Di violenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto. A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione. Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere. Puote omo avere in sé man violenta e ne' suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange là dov'esser de' giocondo. Puossi far forza nella deitade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella. La frode, ond'ogni coscienza è morsa, può l'omo usare in colui che 'n lui fida e in quel che fidanza non imborsa. Questo modo di retro par ch'incida pur lo vinco d'amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s'annida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura. Per l'altro modo quell'amor s'oblia che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto, di che la fede spezial si cria; onde nel cerchio minore, ov'è 'l punto de l'universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto». E io: «Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede. Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con sì aspre lingue, perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?». Ed elli a me «Perché tanto delira», disse «lo 'ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che 'l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta? Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli». «O sol che sani ogni vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m'aggrata. Ancora in dietro un poco ti rivolvi», diss'io, «là dove di' ch'usura offende la divina bontade, e 'l groppo solvi». «Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende dal divino 'ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; sì che vostr'arte a Dio quasi è nepote. Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; e perché l'usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch'in altro pon la spene. Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via là oltra si dismonta». Inferno: Canto XII Era lo loco ov'a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco, tal, ch'ogni vista ne sarebbe schiva. Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamia di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l'ira dentro fiacca. Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che sù nel mondo la morte ti porse? Pàrtiti, bestia: ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene». Qual è quel toro che si slaccia in quella c'ha ricevuto già 'l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella, vid'io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: «Corri al varco: mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale». Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi forse a questa ruina ch'è guardata da quell'ira bestial ch'i' ora spensi. Or vo' che sappi che l'altra fiata ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, da tutte parti l'alta valle feda tremò sì, ch'i' pensai che l'universo sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia qui e altrove, tal fece riverso. Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per violenza in altrui noccia». Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l'etterna poi sì mal c'immolle! Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta; e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e l'un gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l'arco tiro». Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta». Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira e fé di sé la vendetta elli stesso. E quel di mezzo, ch'al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell'altro è Folo, che fu sì pien d'ira. Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille». Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: «Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch'el tocca? Così non soglion far li piè d'i morti». E 'l mio buon duca, che già li er'al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità 'l ci 'nduce, e non diletto. Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest'officio novo: non è ladron, né io anima fuia. Ma per quella virtù per cu' io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri là dove si guada e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l'aere vada». Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida, e fa cansar s'altra schiera v'intoppa». Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio; e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni che dier nel sangue e ne l'aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dionisio fero, che fé Cicilia aver dolorosi anni. E quella fronte c'ha 'l pel così nero, è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero fu spento dal figliastro sù nel mondo». Allor mi volsi al poeta, e quei disse: «Questi ti sia or primo, e io secondo». Poco più oltre il centauro s'affisse sovr'una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola». Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb'io. Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. «Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema», disse 'l centauro, «voglio che tu credi che da quest'altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge ove la tirannia convien che gema. La divina giustizia di qua punge quell'Attila che fu flagello in terra e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra». Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo. Inferno: Canto XIII Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco: non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. E 'l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone», mi cominciò a dire, «e sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone». Io sentia d'ogni parte trarre guai, e non vedea persona che 'l facesse; per ch'io tutto smarrito m'arrestai. Cred'io ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi da gente che per noi si nascondesse. Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, li pensier c'hai si faran tutti monchi». Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb'esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi». Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de'capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond'io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme. «S'elli avesse potuto creder prima», rispuose 'l savio mio, «anima lesa, ciò c'ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa. Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece». E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch'io un poco a ragionar m'inveschi. Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi. La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. Per le nove radici d'esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d'onor sì degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede». Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace», disse 'l poeta a me, «non perder l'ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». Ond'io a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora». Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come l'anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s'alcuna mai di tai membra si spiega». Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: «Brievemente sarà risposto a voi. Quando si parte l'anima feroce dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta, Minòs la manda a la settima foce. Cade in la selva, e non l'è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. Qui le trascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l'ombra sua molesta». Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi, similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogni rosta. Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». E l'altro, cui pareva tardar troppo, gridava: «Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!». E poi che forse li fallia la lena, di sé e d'un cespuglio fece un groppo. Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena. In quel che s'appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea, per le rotture sanguinenti in vano. «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?». Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, disse «Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?». Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto. I' fui de la città che nel Batista mutò il primo padrone; ond'ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista; e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista, que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. Io fei gibbetto a me de le mie case». Inferno: Canto XIV Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte, e rende'le a colui, ch'era già fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogni pianta rimove. La dolorosa selva l'è ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa: quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei che fu da' piè di Caton già soppressa. O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi miei! D'anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente. Quella che giva intorno era più molta, e quella men che giacea al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta. Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde d'India vide sopra 'l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore; onde la rena s'accendea, com'esca sotto focile, a doppiar lo dolore. Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l'arsura fresca. I' cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, chi è quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che 'l marturi?». E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l'ultimo dì percosso fui; o s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", sì com'el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza, non ne potrebbe aver vendetta allegra». Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito: «O Capaneo, in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito: nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito». Poi si rivolse a me con miglior labbia dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti». Tacendo divenimmo là 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. Lo fondo suo e ambo le pendici fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. «Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com'è 'l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta». Queste parole fuor del duca mio; per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avea il disio. «In mezzo mar siede un paese guasto», diss'elli allora, «che s'appella Creta, sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. Una montagna v'è che già fu lieta d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida: or è diserta come cosa vieta. Rea la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver' Dammiata e Roma guarda come suo speglio. La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e 'l petto, poi è di rame infino a la forcata; da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede è terra cotta; e sta 'n su quel più che 'n su l'altro, eretto. Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta d'una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, foran quella grotta. Lor corso in questa valle si diroccia: fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia infin, là ove più non si dismonta fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta». E io a lui: «Se 'l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?». Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, non se' ancor per tutto il cerchio vòlto: per che, se cosa n'apparisce nova, non de' addur maraviglia al tuo volto». E io ancor: «Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l'un taci, e l'altro di' che si fa d'esta piova». «In tutte tue question certo mi piaci», rispuose; «ma 'l bollor de l'acqua rossa dovea ben solver l'una che tu faci. Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa». Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogni vapor si spegne». Inferno: Canto XV Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l'acqua e li argini. Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa, fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro felli. Già eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, perch'io in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo d'anime una schiera che venìan lungo l'argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, sì che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza sua al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia». I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco». «O figliuol», disse, «qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent'anni sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia. Però va oltre: i' ti verrò a' panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni». I' non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com'uom che reverente vada. El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l'ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra 'l cammino?». «Là sù di sopra, in la vita serena», rispuos'io lui, «mi smarri' in una valle, avanti che l'età mia fosse piena. Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m'apparve, tornand'io in quella, e reducemi a ca per questo calle». Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m'accorsi ne la vita bella; e s'io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t'avrei a l'opera conforto. Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico: ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent'è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba. Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s'alcuna surge ancora in lor letame, in cui riviva la sementa santa di que' Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta». «Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuos'io lui, «voi non sareste ancora de l'umana natura posto in bando; ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna: e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo convien che ne la mia lingua si scerna. Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s'a lei arrivo. Tanto vogl'io che vi sia manifesto, pur che mia coscienza non mi garra, che a la Fortuna, come vuol, son presto. Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e 'l villan la sua marra». Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro, e riguardommi; poi disse: «Bene ascolta chi la nota». Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi. Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché 'l tempo sarìa corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama, colui potei che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi. Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone più lungo esser non può, però ch'i' veggio là surger nuovo fummo del sabbione. Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. Inferno: Canto XVI Già era in loco onde s'udìa 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro. Venian ver noi, e ciascuna gridava: «Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri esser alcun di nostra terra prava». Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver me, e: «Or aspetta», disse «a costor si vuole esser cortese. E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta». Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che 'n contraro il collo faceva ai piè continuo viaggio. E «Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi», cominciò l'uno «e 'l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se', che i vivi piedi così sicuro per lo 'nferno freghi. Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. L'altro, ch'appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovrìa esser gradita. E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui; e certo la fiera moglie più ch'altro mi nuoce». S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che 'l dottor l'avrìa sofferto; ma perch'io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i' mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. Di vostra terra sono, e sempre mai l'ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi». «Se lungamente l'anima conduca le membra tue», rispuose quelli ancora, «e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n'è gita fora; ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole». «La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l'un l'altro com'al ver si guata. «Se l'altre volte sì poco ti costa», rispuoser tutti «il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta! Però, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I' fui", fa che di noi a la gente favelle». Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria potuto dirsi tosto così com'e' fuoro spariti; per ch'al maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume c'ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell'acqua tinta, sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, sì come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. Ond'ei si volse inver' lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell'alto burrato. 'E' pur convien che novità risponda' dicea fra me medesmo 'al novo cenno che 'l maestro con l'occhio sì seconda'. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno! El disse a me: «Tosto verrà di sovra ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna: tosto convien ch'al tuo viso si scovra». Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, però che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vòte, ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogni cor sicuro, sì come torna colui che va giuso talora a solver l'àncora ch'aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che 'n sù si stende, e da piè si rattrappa.