Purgatorio: Canto XVII Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe, come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera del sol debilemente entra per essi; e fia la tua imagine leggera in giugnere a veder com'io rividi lo sole in pria, che già nel corcar era. Sì, pareggiando i miei co' passi fidi del mio maestro, usci' fuor di tal nube ai raggi morti già ne' bassi lidi. O imaginativa che ne rube talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge perché dintorno suonin mille tube, chi move te, se 'l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s'informa, per sé o per voler che giù lo scorge. De l'empiezza di lei che mutò forma ne l'uccel ch'a cantar più si diletta, ne l'imagine mia apparve l'orma; e qui fu la mia mente sì ristretta dentro da sé, che di fuor non venìa cosa che fosse allor da lei ricetta. Poi piovve dentro a l'alta fantasia un crucifisso dispettoso e fero ne la sua vista, e cotal si morìa; intorno ad esso era il grande Assuero, Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo, che fu al dire e al far così intero. E come questa imagine rompeo sé per sé stessa, a guisa d'una bulla cui manca l'acqua sotto qual si feo, surse in mia visione una fanciulla piangendo forte, e dicea: «O regina, perché per ira hai voluto esser nulla? Ancisa t'hai per non perder Lavina; or m'hai perduta! Io son essa che lutto, madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina». Come si frange il sonno ove di butto nova luce percuote il viso chiuso, che fratto guizza pria che muoia tutto; così l'imaginar mio cadde giuso tosto che lume il volto mi percosse, maggior assai che quel ch'è in nostro uso. I' mi volgea per veder ov'io fosse, quando una voce disse «Qui si monta», che da ogni altro intento mi rimosse; e fece la mia voglia tanto pronta di riguardar chi era che parlava, che mai non posa, se non si raffronta. Ma come al sol che nostra vista grava e per soverchio sua figura vela, così la mia virtù quivi mancava. «Questo è divino spirito, che ne la via da ir sù ne drizza sanza prego, e col suo lume sé medesmo cela. Sì fa con noi, come l'uom si fa sego; ché quale aspetta prego e l'uopo vede, malignamente già si mette al nego. Or accordiamo a tanto invito il piede; procacciam di salir pria che s'abbui, ché poi non si poria, se 'l dì non riede». Così disse il mio duca, e io con lui volgemmo i nostri passi ad una scala; e tosto ch'io al primo grado fui, senti'mi presso quasi un muover d'ala e ventarmi nel viso e dir: 'Beati pacifici, che son sanz'ira mala!'. Già eran sovra noi tanto levati li ultimi raggi che la notte segue, che le stelle apparivan da più lati. 'O virtù mia, perché sì ti dilegue?', fra me stesso dicea, ché mi sentiva la possa de le gambe posta in triegue. Noi eravam dove più non saliva la scala sù, ed eravamo affissi, pur come nave ch'a la piaggia arriva. E io attesi un poco, s'io udissi alcuna cosa nel novo girone; poi mi volsi al maestro mio, e dissi: «Dolce mio padre, dì, quale offensione si purga qui nel giro dove semo? Se i piè si stanno, non stea tuo sermone». Ed elli a me: «L'amor del bene, scemo del suo dover, quiritta si ristora; qui si ribatte il mal tardato remo. Ma perché più aperto intendi ancora, volgi la mente a me, e prenderai alcun buon frutto di nostra dimora». «Né creator né creatura mai», cominciò el, «figliuol, fu sanza amore, o naturale o d'animo; e tu 'l sai. Lo naturale è sempre sanza errore, ma l'altro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco di vigore. Mentre ch'elli è nel primo ben diretto, e ne' secondi sé stesso misura, esser non può cagion di mal diletto; ma quando al mal si torce, o con più cura o con men che non dee corre nel bene, contra 'l fattore adovra sua fattura. Quinci comprender puoi ch'esser convene amor sementa in voi d'ogni virtute e d'ogni operazion che merta pene. Or, perché mai non può da la salute amor del suo subietto volger viso, da l'odio proprio son le cose tute; e perché intender non si può diviso, e per sé stante, alcuno esser dal primo, da quello odiare ogni effetto è deciso. Resta, se dividendo bene stimo, che 'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso amor nasce in tre modi in vostro limo. co chi, per esser suo vicin soppresso, spera eccellenza, e sol per questo brama ch'el sia di sua grandezza in basso messo; è chi podere, grazia, onore e fama teme di perder perch'altri sormonti, onde s'attrista sì che 'l contrario ama; ed è chi per ingiuria par ch'aonti, sì che si fa de la vendetta ghiotto, e tal convien che 'l male altrui impronti. Questo triforme amor qua giù di sotto si piange; or vo' che tu de l'altro intende, che corre al ben con ordine corrotto. Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l'animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende. Se lento amore a lui veder vi tira o a lui acquistar, questa cornice, dopo giusto penter, ve ne martira. Altro ben è che non fa l'uom felice; non è felicità, non è la buona essenza, d'ogni ben frutto e radice. L'amor ch'ad esso troppo s'abbandona, di sovr'a noi si piange per tre cerchi; ma come tripartito si ragiona, tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi». Purgatorio: Canto XVIII Posto avea fine al suo ragionamento l'alto dottore, e attento guardava ne la mia vista s'io parea contento; e io, cui nova sete ancor frugava, di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse lo troppo dimandar ch'io fo li grava'. Ma quel padre verace, che s'accorse del timido voler che non s'apriva, parlando, di parlare ardir mi porse. Ond'io: «Maestro, il mio veder s'avviva sì nel tuo lume, ch'io discerno chiaro quanto la tua ragion parta o descriva. Però ti prego, dolce padre caro, che mi dimostri amore, a cui reduci ogni buono operare e 'l suo contraro». «Drizza», disse, «ver' me l'agute luci de lo 'ntelletto, e fieti manifesto l'error de' ciechi che si fanno duci. L'animo, ch'è creato ad amar presto, ad ogni cosa è mobile che piace, tosto che dal piacere in atto è desto. Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, sì che l'animo ad essa volger face; e se, rivolto, inver' di lei si piega, quel piegare è amor, quell'è natura che per piacer di novo in voi si lega. Poi, come 'l foco movesi in altura per la sua forma ch'è nata a salire là dove più in sua matera dura, così l'animo preso entra in disire, ch'è moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire. Or ti puote apparer quant'è nascosa la veritate a la gente ch'avvera ciascun amore in sé laudabil cosa; però che forse appar la sua matera sempre esser buona, ma non ciascun segno è buono, ancor che buona sia la cera». «Le tue parole e 'l mio seguace ingegno», rispuos'io lui, «m'hanno amor discoverto, ma ciò m'ha fatto di dubbiar più pregno; ché, s'amore è di fuori a noi offerto, e l'anima non va con altro piede, se dritta o torta va, non è suo merto». Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede, dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta pur a Beatrice, ch'è opra di fede. Ogni forma sustanzial, che setta è da matera ed è con lei unita, specifica vertute ha in sé colletta, la qual sanza operar non è sentita, né si dimostra mai che per effetto, come per verdi fronde in pianta vita. Però, là onde vegna lo 'ntelletto de le prime notizie, omo non sape, e de' primi appetibili l'affetto, che sono in voi sì come studio in ape di far lo mele; e questa prima voglia merto di lode o di biasmo non cape. Or perché a questa ogn'altra si raccoglia, innata v'è la virtù che consiglia, e de l'assenso de' tener la soglia. Quest'è 'l principio là onde si piglia ragion di meritare in voi, secondo che buoni e rei amori accoglie e viglia. Color che ragionando andaro al fondo, s'accorser d'esta innata libertate; però moralità lasciaro al mondo. Onde, poniam che di necessitate surga ogni amor che dentro a voi s'accende, di ritenerlo è in voi la podestate. La nobile virtù Beatrice intende per lo libero arbitrio, e però guarda che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende». La luna, quasi a mezza notte tarda, facea le stelle a noi parer più rade, fatta com'un secchion che tuttor arda; e correa contro 'l ciel per quelle strade che 'l sole infiamma allor che quel da Roma tra Sardi e ' Corsi il vede quando cade. E quell'ombra gentil per cui si noma Pietola più che villa mantoana, del mio carcar diposta avea la soma; per ch'io, che la ragione aperta e piana sovra le mie quistioni avea ricolta, stava com'om che sonnolento vana. Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che dopo le nostre spalle a noi era già volta. E quale Ismeno già vide e Asopo lungo di sè di notte furia e calca, pur che i Teban di Bacco avesser uopo, cotal per quel giron suo passo falca, per quel ch'io vidi di color, venendo, cui buon volere e giusto amor cavalca. Tosto fur sovr'a noi, perché correndo si movea tutta quella turba magna; e due dinanzi gridavan piangendo: «Maria corse con fretta a la montagna; e Cesare, per soggiogare Ilerda, punse Marsilia e poi corse in Ispagna». «Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda per poco amor», gridavan li altri appresso, «che studio di ben far grazia rinverda». «O gente in cui fervore aguto adesso ricompie forse negligenza e indugio da voi per tepidezza in ben far messo, questi che vive, e certo i' non vi bugio, vuole andar sù, pur che 'l sol ne riluca; però ne dite ond'è presso il pertugio». Parole furon queste del mio duca; e un di quelli spirti disse: «Vieni di retro a noi, e troverai la buca. Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, che restar non potem; però perdona, se villania nostra giustizia tieni. Io fui abate in San Zeno a Verona sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, di cui dolente ancor Milan ragiona. E tale ha già l'un piè dentro la fossa, che tosto piangerà quel monastero, e tristo fia d'avere avuta possa; perché suo figlio, mal del corpo intero, e de la mente peggio, e che mal nacque, ha posto in loco di suo pastor vero». Io non so se più disse o s'ei si tacque, tant'era già di là da noi trascorso; ma questo intesi, e ritener mi piacque. E quei che m'era ad ogni uopo soccorso disse: «Volgiti qua: vedine due venir dando a l'accidia di morso». Di retro a tutti dicean: «Prima fue morta la gente a cui il mar s'aperse, che vedesse Iordan le rede sue. E quella che l'affanno non sofferse fino a la fine col figlio d'Anchise, sé stessa a vita sanza gloria offerse». Poi quando fuor da noi tanto divise quell'ombre, che veder più non potiersi, novo pensiero dentro a me si mise, del qual più altri nacquero e diversi; e tanto d'uno in altro vaneggiai, che li occhi per vaghezza ricopersi, e 'l pensamento in sogno trasmutai. Purgatorio: Canto XIX Ne l'ora che non può 'l calor diurno intepidar più 'l freddo de la luna, vinto da terra, e talor da Saturno - quando i geomanti lor Maggior Fortuna veggiono in orïente, innanzi a l'alba, surger per via che poco le sta bruna -, mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, con le man monche, e di colore scialba. Io la mirava; e come 'l sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, così lo sguardo mio le facea scorta la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d'ora, e lo smarrito volto, com' amor vuol, così le colorava. Poi ch'ell' avea 'l parlar così disciolto, cominciava a cantar sì, che con pena da lei avrei mio intento rivolto. «Io son», cantava, «io son dolce serena, che' marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena! Io volsi Ulisse del suo cammin vago al canto mio; e qual meco s'ausa, rado sen parte; sì tutto l'appago!». Ancor non era sua bocca richiusa, quand' una donna apparve santa e presta lunghesso me per far colei confusa. «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», fieramente dicea; ed el venìa con li occhi fitti pur in quella onesta. L'altra prendea, e dinanzi l'apria fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; quel mi svegliò col puzzo che n'uscia. Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre voci t'ho messe!», dicea, «Surgi e vieni; troviam l'aperta per la qual tu entre». Sù mi levai, e tutti eran già pieni de l'alto dì i giron del sacro monte, e andavam col sol novo a le reni. Seguendo lui, portava la mia fronte come colui che l'ha di pensier carca, che fa di sé un mezzo arco di ponte; quand' io udi' «Venite; qui si varca» parlare in modo soave e benigno, qual non si sente in questa mortal marca. Con l'ali aperte, che parean di cigno, volseci in sù colui che sì parlonne tra due pareti del duro macigno. Mosse le penne poi e ventilonne, 'Qui lugent' affermando esser beati, ch'avran di consolar l'anime donne. «Che hai che pur inver' la terra guati?», la guida mia incominciò a dirmi, poco amendue da l'angel sormontati. E io: «Con tanta sospeccion fa irmi novella visïon ch'a sé mi piega, sì ch'io non posso dal pensar partirmi». «Vedesti», disse, «quell'antica strega che sola sovr' a noi omai si piagne; vedesti come l'uom da lei si slega. Bastiti, e batti a terra le calcagne; li occhi rivolgi al logoro che gira lo rege etterno con le rote magne». Quale 'l falcon, che prima a' pié si mira, indi si volge al grido e si protende per lo disio del pasto che là il tira, tal mi fec' io; e tal, quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso, n'andai infin dove 'l cerchiar si prende. Com'io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, giacendo a terra tutta volta in giuso. 'Adhaesit pavimento anima mea' sentia dir lor con sì alti sospiri, che la parola a pena s'intendea. «O eletti di Dio, li cui soffriri e giustizia e speranza fa men duri, drizzate noi verso li alti saliri». «Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via più tosto, le vostre destre sien sempre di fori». Così pregò 'l poeta, e sì risposto poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io nel parlare avvisai l'altro nascosto, e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assentì con lieto cenno ciò che chiedea la vista del disio. Poi ch'io potei di me fare a mio senno, trassimi sovra quella creatura le cui parole pria notar mi fenno, dicendo: «Spirto in cui pianger matura quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi, sosta un poco per me tua maggior cura. Chi fosti e perché vòlti avete i dossi al sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetri cosa di là ond' io vivendo mossi». Ed elli a me: «Perché i nostri diretri rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima scias quod ego fui successor Petri. Intra Sïestri e Chiaveri s'adima una fiumana bella, e del suo nome lo titol del mio sangue fa sua cima. Un mese è poco più prova' io come pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, che piuma sembran tutte l'altre some. La mia conversïone, omè!, fu tarda; ma, come fatto fui roman pastore, così scopersi la vita bugiarda. Vidi che lì non s'acquetava il core, né più salir potiesi in quella vita; er che di questa in me s'accese amore. Fino a quel punto misera e partita da Dio anima fui, del tutto avara; or, come vedi, qui ne son punita. Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara in purgazion de l'anime converse; e nulla pena il monte ha più amara. Sì come l'occhio nostro non s'aderse in alto, fisso a le cose terrene, così giustizia qui a terra il merse. Come avarizia spense a ciascun bene lo nostro amore, onde operar perdési, così giustizia qui stretti ne tene, ne' piedi e ne le man legati e presi; e quanto fia piacer del giusto Sire, tanto staremo immobili e distesi». Io m'era inginocchiato e volea dire; ma com' io cominciai ed el s'accorse, solo ascoltando, del mio reverire, «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?». E io a lui: «Per vostra dignitate mia coscïenza dritto mi rimorse». «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!», rispuose; «non errar: conservo sono teco e con li altri ad una podestate. Se mai quel santo evangelico suono che dice 'Neque nubent' intendesti, ben puoi veder perch'io così ragiono. Vattene omai: non vo' che più t'arresti; ché la tua stanza mio pianger disagia, col qual maturo ciò che tu dicesti. Nepote ho io di là c'ha nome Alagia, buona da sé, pur che la nostra casa non faccia lei per essempro malvagia; e questa sola di là m'è rimasa». Purgatorio: Canto XX Contra miglior voler voler mal pugna; onde contra 'l piacer mio, per piacerli, trassi de l'acqua non sazia la spugna. Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia, come si va per muro stretto a' merli; ché la gente che fonde a goccia a goccia per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, da l'altra parte in fuor troppo s'approccia. Maladetta sie tu, antica lupa, che più che tutte l'altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa! O ciel, nel cui girar par che si creda le condizion di qua giù trasmutarsi, quando verrà per cui questa disceda? Noi andavam con passi lenti e scarsi, e io attento a l'ombre, ch'i' sentia pietosamente piangere e lagnarsi; e per ventura udi' «Dolce Maria!» dinanzi a noi chiamar così nel pianto come fa donna che in parturir sia; e seguitar: «Povera fosti tanto, quanto veder si può per quello ospizio dove sponesti il tuo portato santo». Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio, con povertà volesti anzi virtute che gran ricchezza posseder con vizio». Queste parole m'eran sì piaciute, ch'io mi trassi oltre per aver contezza di quello spirto onde parean venute. Esso parlava ancor de la larghezza che fece Niccolò a le pulcelle, per condurre ad onor lor giovinezza. «O anima che tanto ben favelle, dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola tu queste degne lode rinovelle. Non fia sanza mercé la tua parola, s'io ritorno a compiér lo cammin corto di quella vita ch'al termine vola». Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto ch'io attenda di là, ma perché tanta grazia in te luce prima che sie morto. Io fui radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia, sì che buon frutto rado se ne schianta. Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia potesser, tosto ne saria vendetta; e io la cheggio a lui che tutto giuggia. Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; di me son nati i Filippi e i Luigi per cui novellamente è Francia retta. Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi: quando li regi antichi venner meno tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi, trova'mi stretto ne le mani il freno del governo del regno, e tanta possa di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno, ch'a la corona vedova promossa la testa di mio figlio fu, dal quale cominciar di costor le sacrate ossa. Mentre che la gran dota provenzale al sangue mio non tolse la vergogna, poco valea, ma pur non facea male. Lì cominciò con forza e con menzogna la sua rapina; e poscia, per ammenda, Pontì e Normandia prese e Guascogna. Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fé di Curradino; e poi ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. Tempo vegg'io, non molto dopo ancoi, che tragge un altro Carlo fuor di Francia, per far conoscer meglio e sé e ' suoi. Sanz'arme n'esce e solo con la lancia con la qual giostrò Giuda, e quella ponta sì ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia. Quindi non terra, ma peccato e onta guadagnerà, per sé tanto più grave, quanto più lieve simil danno conta. L'altro, che già uscì preso di nave, veggio vender sua figlia e patteggiarne come fanno i corsar de l'altre schiave. O avarizia, che puoi tu più farne, poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto, che non si cura de la propria carne? Perché men paia il mal futuro e 'l fatto, veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, e nel vicario suo Cristo esser catto. Veggiolo un'altra volta esser deriso; veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele, e tra vivi ladroni esser anciso. Veggio il novo Pilato sì crudele, che ciò nol sazia, ma sanza decreto portar nel Tempio le cupide vele. O Segnor mio, quando sarò io lieto a veder la vendetta che, nascosa, fa dolce l'ira tua nel tuo secreto? Ciò ch'io dicea di quell'unica sposa de lo Spirito Santo e che ti fece verso me volger per alcuna chiosa, tanto è risposto a tutte nostre prece quanto 'l dì dura; ma com'el s'annotta, contrario suon prendemo in quella vece. Noi repetiam Pigmalion allotta, cui traditore e ladro e paricida fece la voglia sua de l'oro ghiotta; e la miseria de l'avaro Mida, che seguì a la sua dimanda gorda, per la qual sempre convien che si rida. Del folle Acàn ciascun poi si ricorda, come furò le spoglie, sì che l'ira di Iosuè qui par ch'ancor lo morda. Indi accusiam col marito Saffira; lodiam i calci ch'ebbe Eliodoro; e in infamia tutto 'l monte gira Polinestòr ch'ancise Polidoro; ultimamente ci si grida: "Crasso, dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?". Talor parla l'uno alto e l'altro basso, secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona ora a maggiore e ora a minor passo: però al ben che 'l dì ci si ragiona, dianzi non era io sol; ma qui da presso non alzava la voce altra persona». Noi eravam partiti già da esso, e brigavam di soverchiar la strada tanto quanto al poder n'era permesso, quand'io senti', come cosa che cada, tremar lo monte; onde mi prese un gelo qual prender suol colui ch'a morte vada. Certo non si scoteo sì forte Delo, pria che Latona in lei facesse 'l nido a parturir li due occhi del cielo. Poi cominciò da tutte parti un grido tal, che 'l maestro inverso me si feo, dicendo: «Non dubbiar, mentr'io ti guido». 'Gloria in excelsis' tutti 'Deo' dicean, per quel ch'io da' vicin compresi, onde intender lo grido si poteo. No' istavamo immobili e sospesi come i pastor che prima udir quel canto, fin che 'l tremar cessò ed el compiési. Poi ripigliammo nostro cammin santo, guardando l'ombre che giacean per terra, tornate già in su l'usato pianto. Nulla ignoranza mai con tanta guerra mi fé desideroso di sapere, se la memoria mia in ciò non erra, quanta pareami allor, pensando, avere; né per la fretta dimandare er'oso, né per me lì potea cosa vedere: così m'andava timido e pensoso. Purgatorio: Canto XXI La sete natural che mai non sazia se non con l'acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia, mi travagliava, e pungeami la fretta per la 'mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a' due ch'erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa, dal piè guardando la turba che giace; né ci addemmo di lei, sì parlò pria, dicendo; «O frati miei, Dio vi dea pace». Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface. Poi cominciò: «Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l'etterno essilio». «Come!», diss'elli, e parte andavam forte: «se voi siete ombre che Dio sù non degni, chi v'ha per la sua scala tanto scorte?». E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni che questi porta e che l'angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni. Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, però ch'al nostro modo non adocchia. Ond'io fui tratto fuor de l'ampia gola d'inferno per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto 'l potrà menar mia scola. Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a' suoi piè molli». Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religione de la montagna, o che sia fuor d'usanza. Libero è qui da ogni alterazione: di quel che 'l ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d'altro, cagione. Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più sù cade che la scaletta di tre gradi breve; nuvole spesse non paion né rade, né coruscar, né figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade; secco vapor non surge più avante ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai, dov'ha 'l vicario di Pietro le piante. Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che 'n terra si nasconda, non so come, qua sù non tremò mai. Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda. De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l'alma sorprende, e di voler le giova. Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent'anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia: però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii». Così ne disse; e però ch'el si gode tanto del ber quant'è grande la sete. non saprei dir quant'el mi fece prode. E 'l savio duca: «Omai veggio la rete che qui v'impiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete. Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, e perché tanti secoli giaciuto qui se', ne le parole tue mi cappia». «Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond'uscì 'l sangue per Giuda venduto, col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto, «famoso assai, ma non con fede ancora. Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; de l'Eneida dico, la qual mamma fummi e fummi nutrice poetando: sanz'essa non fermai peso di dramma. E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando». Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; ma non può tutto la virtù che vuole; ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne' più veraci. Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?». Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura ch'io dica; ond'io sospiro, e sono inteso dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli quel ch'e' dimanda con cotanta cura». Ond'io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch'io fei; ma più d'ammirazion vo' che ti pigli. Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forza a cantar de li uomini e d'i dèi. Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti». Già s'inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: «Frate, non far, ché tu se' ombra e ombra vedi». Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l'amor ch'a te mi scalda, quand'io dismento nostra vanitate, trattando l'ombre come cosa salda». Purgatorio: Canto XXII Già era l'angel dietro a noi rimaso, l'angel che n'avea vòlti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso; e quei c'hanno a giustizia lor disiro detto n'avea beati, e le sue voci con 'sitiunt', sanz'altro, ciò forniro. E io più lieve che per l'altre foci m'andava, sì che sanz'alcun labore seguiva in sù li spiriti veloci; quando Virgilio incominciò: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore; onde da l'ora che tra noi discese nel limbo de lo 'nferno Giovenale, che la tua affezion mi fé palese, mia benvoglienza inverso te fu quale più strinse mai di non vista persona, sì ch'or mi parran corte queste scale. Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m'allarga il freno, e come amico omai meco ragiona: come poté trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno di quanto per tua cura fosti pieno?». Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: «Ogni tuo dir d'amor m'è caro cenno. Veramente più volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera per le vere ragion che son nascose. La tua dimanda tuo creder m'avvera esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita, forse per quella cerchia dov'io era. Or sappi ch'avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura migliaia di lunari hanno punita. E se non fosse ch'io drizzai mia cura, quand'io intesi là dove tu chiame, crucciato quasi a l'umana natura: 'Per che non reggi tu, o sacra fame de l'oro, l'appetito de' mortali?', voltando sentirei le giostre grame. Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali potean le mani a spendere, e pente'mi così di quel come de li altri mali. Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca toglie 'l penter vivendo e ne li stremi! E sappie che la colpa che rimbecca per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca; però, s'io son tra quella gente stato che piange l'avarizia, per purgarmi, per lo contrario suo m'è incontrato». «Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta», disse 'l cantor de' buccolici carmi, «per quello che Cliò teco lì tasta, non par che ti facesse ancor fedele la fede, sanza qual ben far non basta. Se così è, qual sole o quai candele ti stenebraron sì, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?». Ed elli a lui: «Tu prima m'inviasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m'alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte, quando dicesti: 'Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenie scende da ciel nova'. Per te poeta fui, per te cristiano: ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, a colorare stenderò la mano: Già era 'l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata per li messaggi de l'etterno regno; e la parola tua sopra toccata si consonava a' nuovi predicanti; ond'io a visitarli presi usata. Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti; e mentre che di là per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi fer dispregiare a me tutte altre sette. E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi di Tebe poetando, ebb'io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu'mi, lungamente mostrando paganesmo; e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo. Tu dunque, che levato hai il coperchio che m'ascondeva quanto bene io dico, mentre che del salire avem soverchio, dimmi dov'è Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: dimmi se son dannati, e in qual vico». «Costoro e Persio e io e altri assai», rispuose il duca mio, «siam con quel Greco che le Muse lattar più ch'altri mai, nel primo cinghio del carcere cieco: spesse fiate ragioniam del monte che sempre ha le nutrice nostre seco. Euripide v'è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piùe Greci che già di lauro ornar la fronte. Quivi si veggion de le genti tue Antigone, Deifile e Argia, e Ismene sì trista come fue. Védeisi quella che mostrò Langia; èvvi la figlia di Tiresia, e Teti e con le suore sue Deidamia». Tacevansi ambedue già li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti; e già le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in sù l'ardente corno, quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, girando il monte come far solemo». Così l'usanza fu lì nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l'assentir di quell'anima degna. Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch'a poetar mi davano intelletto. Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni; e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, così quello in giuso, cred'io, perché persona sù non vada. Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, cadea de l'alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso. Li due poeti a l'alber s'appressaro; e una voce per entro le fronde gridò: «Di questo cibo avrete caro». Poi disse: «Più pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde. E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d'acqua; e Daniello dispregiò cibo e acquistò savere. Lo secol primo, quant'oro fu bello, fé savorose con fame le ghiande, e nettare con sete ogni ruscello. Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto; per ch'elli è glorioso e tanto grande quanto per lo Vangelio v'è aperto». Purgatorio: Canto XXIII Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava io sì come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde, lo più che padre mi dicea: «Figliuole, vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto più utilmente compartir si vuole». Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, che l'andar mi facean di nullo costo. Ed ecco piangere e cantar s'udìe 'Labia mea, Domine' per modo tal, che diletto e doglia parturìe. «O dolce padre, che è quel ch'i' odo?», comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo». Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota. Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema, che da l'ossa la pelle s'informava. Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando più n'ebbe tema. Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perdé Ierusalemme, quando Maria nel figlio diè di becco!' Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo' ben avria quivi conosciuta l'emme. Chi crederebbe che l'odor d'un pomo sì governasse, generando brama, e quel d'un'acqua, non sappiendo como? Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama, ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?». Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ciò che l'aspetto in sé avea conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. «Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, né a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, di' chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!». «La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, mi dà di pianger mo non minor doglia», rispuos'io lui, «veggendola sì torta. Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; non mi far dir mentr'io mi maraviglio, ché mal può dir chi è pien d'altra voglia». Ed elli a me: «De l'etterno consiglio cade vertù ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro ond'io sì m'assottiglio. Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rifà santa. Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura. E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovrìa dir sollazzo, ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire 'Elì', quando ne liberò con la sua vena». E io a lui: «Forese, da quel dì nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinq'anni non son vòlti infino a qui. Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l'ora del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, come se' tu qua sù venuto ancora? Io ti credea trovar là giù di sotto dove tempo per tempo si ristora». Ond'elli a me: «Sì tosto m'ha condotto a ber lo dolce assenzo d'i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto. Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, e liberato m'ha de li altri giri. Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare è più soletta; ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica che la Barbagia dov'io la lasciai. O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? Tempo futuro m'è già nel cospetto, cui non sarà quest'ora molto antica, nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l'andar mostrando con le poppe il petto. Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline? Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, già per urlare avrian le bocche aperte; ché se l'antiveder qui non m'inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna. Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira là dove 'l sol veli». Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente. Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l'altr'ier, quando tonda vi si mostrò la suora di colui», e 'l sol mostrai; «costui per la profonda notte menato m'ha d'i veri morti con questa vera carne che 'l seconda. Indi m'han tratto sù li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che 'l mondo fece torti. Tanto dice di farmi sua compagna, che io sarò là dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna. Virgilio è questi che così mi dice», e addita'lo; «e quest'altro è quell'ombra per cui scosse dianzi ogni pendice lo vostro regno, che da sé lo sgombra». Purgatorio: Canto XXIV Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento facea, ma ragionando andavam forte, sì come nave pinta da buon vento; e l'ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte. E io, continuando al mio sermone, dissi: «Ella sen va sù forse più tarda che non farebbe, per altrui cagione. Ma dimmi, se tu sai, dov'è Piccarda; dimmi s'io veggio da notar persona tra questa gente che sì mi riguarda». «La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse più, triunfa lieta ne l'alto Olimpo già di sua corona». Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta di nominar ciascun, da ch'è sì munta nostra sembianza via per la dieta. Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia di là da lui più che l'altre trapunta ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l'anguille di Bolsena e la vernaccia». Molti altri mi nomò ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, sì ch'io però non vidi un atto bruno. Vidi per fame a vòto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio che pasturò col rocco molte genti. Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio già di bere a Forlì con men secchezza, e sì fu tal, che non si sentì sazio. Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, che più parea di me aver contezza. El mormorava; e non so che «Gentucca» sentiv'io là, ov'el sentia la piaga de la giustizia che sì li pilucca. «O anima», diss'io, «che par sì vaga di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda, e te e me col tuo parlare appaga». «Femmina è nata, e non porta ancor benda», cominciò el, «che ti farà piacere la mia città, come ch'om la riprenda. Tu te n'andrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore, dichiareranti ancor le cose vere. Ma dì s'i' veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando 'Donne ch'avete intelletto d'amore'». E io a lui: «I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando». «O frate, issa vegg'io», diss'elli, «il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne; e qual più a gradire oltre si mette, non vede più da l'uno a l'altro stilo»; e, quasi contentato, si tacette. Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo, così tutta la gente che lì era, volgendo 'l viso, raffrettò suo passo, e per magrezza e per voler leggera. E come l'uom che di trottare è lasso, lascia andar li compagni, e sì passeggia fin che si sfoghi l'affollar del casso, sì lasciò trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?». «Non so», rispuos'io lui, «quant'io mi viva; ma già non fia il tornar mio tantosto, ch'io non sia col voler prima a la riva; però che 'l loco u' fui a viver posto, di giorno in giorno più di ben si spolpa, e a trista ruina par disposto». «Or va», diss'el; «che quei che più n'ha colpa, vegg'io a coda d'una bestia tratto inver' la valle ove mai non si scolpa. La bestia ad ogni passo va più ratto, crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto. Non hanno molto a volger quelle ruote», e drizzò li ochi al ciel, «che ti fia chiaro ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote. Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro in questo regno, sì ch'io perdo troppo venendo teco sì a paro a paro». Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo, tal si partì da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo sì gran marescalchi. E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue, parvermi i rami gravidi e vivaci d'un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vòlto in laci. Vidi gente sott'esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani, che pregano, e 'l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde. Poi si partì sì come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta. «Trapassate oltre sanza farvi presso: legno è più sù che fu morso da Eva, e questa pianta si levò da esso». Sì tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva. «Ricordivi», dicea, «d'i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Teseo combatter co' doppi petti; e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver' Madian discese i colli». Sì accostati a l'un d'i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite già da miseri guadagni. Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e più ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola. «Che andate pensando sì voi sol tre?». sùbita voce disse; ond'io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre. Drizzai la testa per veder chi fossi; e già mai non si videro in fornace vetri o metalli sì lucenti e rossi, com'io vidi un che dicea: «S'a voi piace montare in sù, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace». L'aspetto suo m'avea la vista tolta; per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, com'om che va secondo ch'elli ascolta. E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l'erba e da' fiori; tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, che fé sentir d'ambrosia l'orezza. E senti' dir: «Beati cui alluma tanto di grazia, che l'amor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma, esuriendo sempre quanto è giusto!».