Pochi 
                  chilometri ancora e si abbandona la piana ricca di acacie e 
                  giganteschi baobab 
                  inoltrandosi in una pista che termina nel giro di alcuni chilometri 
                  tra basse gole in un paesetto con una grande chiesa e alcune 
                  basse costruzioni in muratura frammiste ai tipici tucul. Ci 
                  ritroviamo naturalmente ospiti dei preti copti ed essendo padre 
                  Lino un religioso, anche se di diversa confessione, siamo ben 
                  accolti. A sera ci danno una branda e una coperta e dormiamo 
                  all'aperto nei pressi di una costruzione in muratura. Ma nel 
                  cuore della notte alcuni uomini si avvicinano, apparentemente 
                  hanno voglia di molestarci; mi toccano con un oggetto freddo 
                  … sarà un bastone, tutti hanno un bastone da quelle parti per 
                  difendersi dagli animali o per uccidere i serpenti che si infilano 
                  ovunque. Padre lino finge di dormire e non batte ciglio, io 
                  mi irrito e pur non conoscendo la lingua tigrina sfodero un 
                  ristretto repertorio di parolacce in lingua locale - nessuno 
                  può vivere da quelle parti senza sapere almeno quelle cinque 
                  o sei parole - e gli sconosciuti brontolando qualcosa si allontanano, 
                  apparentemente un piccolo incidente senza conseguenze.
                All'alba 
                  siamo in piedi e già in cammino, abbiamo una buona idea della 
                  direzione da seguire tanto più che la cima del monte è spesso 
                  in vista, apparentemente a portata di mano. La salita è ardua 
                  ma non certamente come fa credere la guida del C.T.I., basta 
                  essere buoni camminatori e non ci sono problemi; la zona è molto 
                  bella e caratteristica, ricca di variopinte farfalle, uccelli 
                  e giganteschi millepiedi e una bassa ma discreta vegetazione 
                  la tinge di un verde intenso. Ad ovest grandi monti e la visuale 
                  si posa oltre sul ciglio dell'altipiano, a nord immense pianure 
                  semideserte con monti assolutamente inacessibili tanto sono 
                  ripidi, una visuale maestosa. Dopo un paio d'ore sostiamo in 
                  una capanna dove vi sono non meno di una ventina di giovani 
                  preti copti, tutti indigeni, ove ci rifocilliamo e scattiamo 
                  qualche foto e quando ripartiamo non siamo più soli in quanto 
                  ci dicono che avremo bisogno di una guida e di assistenza. Si 
                  rincomincia a salire ed improvvisamente un'affilatissima lama 
                  dinnanzi a noi taglia in due il nulla - è un ripidissimo e strettissimo 
                  costone rosso, una sella che precipita praticamente a picco 
                  su entrambi i lati per oltre settecento metri e si riunisce 
                  un paio di centinaia di metri più avanti con un altissimo monte 
                  con una parete liscia come l'olio stesa perpendicolarmente per 
                  1250 metri tra il cielo e la terra. Quel costone, non vi sono 
                  dubbi, è un passaggio obbligato ma noi non ci sentiamo più molto 
                  obbligati a traversarlo.
                Sto 
                  pensando che solo i ragni possono camminare su quelle pareti 
                  quando scorgiamo un giovane prete proveniente dalla montagna 
                  opposta che cammina tranquillamente in equilibrio sul dorso 
                  del costone; tira vento lassù e i grossi falchi si divertono 
                  a volare bassi e non distanti da quel giovane uomo, mi chiedo 
                  se mai arriverà bene in vista dell'obiettivo della mia macchina 
                  fotografica. In effetti veniamo a sapere che diversi preti sono 
                  passati da qual costone al paradiso senza soste intermedie, 
                  ora tocca a noi tentare. Ci levano le scarpe, prendono i nostri 
                  zaini e si avviano in perfetto equilibrio e veloci, sicuri di 
                  se, in direzione del monte opposto.
                Io 
                  prego, prego per la mia nuova Rolleiflex biottica, le rate sono 
                  ancora da pagare - non penso al giovane uomo che la porta, se 
                  precipita va direttamente in paradiso. La mia Rolleiflex e i 
                  miei scarponcini che tante soddisfazioni mi hanno dato dalle 
                  assolate pianure dancale alle stupende Dolomiti venete finiranno 
                  direttamente all'inferno - ma ora è il nostro turno, tocca a 
                  noi affrontare il passaggio. Abbiamo anche la scelta tra l'equilibrismo 
                  impavido e la vita da ragno; ci hanno tolto le scarpe perchè 
                  per un certo tratto sul dorso molto inclinato del costone si 
                  può - e si deve - camminare e i piedi nudi fanno più 
                  presa su quel granito rossastro e, in effetti, i ragni non usano 
                  calzature di alcun tipo. Un lieve giramento di capo, una scivolata 
                  anche di pochi centimetri oppure la semplice impellente necessità 
                  di grattarsi il capo e nessuno mai ascolterà la tua avventura, 
                  non dalla tua viva voce! Si giunge poi su una pianetta di sosta 
                  , forse meno di un metro quadrato a da li ci si immette - per 
                  chi non gradisce l'equilibrismo - su un gradino artificiale 
                  scavato nella roccia, meno di venti centimetri di larghezza 
                  oltre che lungo come l'eternità quando lo si traversa ma in 
                  effetti un centinaio di metri - probabilmente meno - situato 
                  qualche metro al di sotto del tagliente dorso del costone. Sotto 
                  il gradino la parete è perfettamente liscia e casca perpendicolarmente 
                  a picco verso l'infinito … per oltre settecento metri. Padre 
                  Lino passa per primo, le palme delle mani e il torace appoggiate 
                  alla parete di granito, la testa rivolta verso l'alto e parte 
                  del tallone saldamente ancorata nel nulla; in fondo lui è della 
                  provincia di Verona e i monti sono il suo pane quotidiano. Attendo 
                  che sia passato e mi avvio, schiena poggiata alla parete di 
                  granito e palme delle mani poggiate alla medesima all'altezza 
                  della cintola, gli alluci saldamente ancorati nel vuoto; preferisco 
                  avere una maestosa panoramica di fronte che l'aver il naso piantato 
                  sulla pietra. Sento una voce lontana che mi urla di non guardare 
                  in basso ma la ignoro - pover'uomo, dev'essere preoccupatissimo 
                  … ma non posso farne a meno; non tanto per individuare la presunta 
                  pista d'atterraggio ma perchè forse per un difetto congenito, 
                  qualcosa che preme alla base della nuca o forse le carotidi 
                  strozzate, a me le vertigini vengono solo se rivolgo il capo 
                  verso l'alto. Tutto sommato la vista del baratro è interessante 
                  e piacevole, basta che duri … e dura quanto basta per rivedere 
                  scarponi e il resto.
                Arriviamo 
                  in cima presso una bassa costruzione in pietra e cemento seminascosta 
                  dagli arbusti sull'orlo di una voragine senza fine che si affaccia 
                  sulla valle dello Sciotel, apparentemente si tratta di un pozzo 
                  o una cisterna, sul fianco dei nomi e una scritta in italiano 
                  che non rammento e la data, 1912. Iil panorama è imponente: 
                  un'immensa piana ricca di acacie ad est, che dai piedi del monte 
                  si perde all'orizzonte, una grossa frattura e altissime, inacessibili 
                  cime a nord e di fronte, su un dolce pendio una piccola costruzione 
                  circolare bianca di pietre e fango col tetto conico sormontato 
                  da una croce copta ed alcuni alveari di fango e fieno che sembrano 
                  dei silos alti un paio di metri e poi il pendio si tramuta nuovamente 
                  in un immenso baratro senza fine.
                La 
                  piccola costruzione bianca, il convento della Trinità di Debre 
                  Sellassiè, è un luogo di culto. Internamente a meno di due metri 
                  un altro muro circolare equidistante dal primo con un'apertura 
                  che immette nel cuore della chiesetta; quà e la tipiche pitture 
                  religiose copte, degli affreschi murali, ma niente di eccezzionale. 
                  
                La 
                  prassi è sempre la medesima: qualche chiacchiera confortati 
                  da un'ospitalità sincera e disinteressata, ci si rifocilla, 
                  un'esplorazione alle zone adiacenti in base al tempo disponibile 
                  e poi il ritorno, nuovamente il muro dei ragni che questa volta, 
                  essendo la pendenza favorevole e noi non più in perfette condizioni 
                  fisiche preferiamo evitare e attraversare a cavalcioni sulla 
                  cresta rischiando solo il fondo dei pantaloni e non l'intero 
                  contenuto e poi la discesa e la grande chiesa alla base dei 
                  monti ma qualcosa è cambiato, il prete copto che ci aveva accolti 
                  amichevolmente all'arrivo ci avvisa con aria grave che non possiamo 
                  ripartire ne di tentare di farlo ma non riusciamo a saperne 
                  di più.
                É 
                  sera, ceniamo e attendiamo. Verso le dieci la porta si apre 
                  e una figura con una rozza divisa ci appare, non ha armi con 
                  se ma sembra costruito di pallottole tante ne ha addosso e non 
                  appare molto amichevole nei nostri confronti. Ci dice - parla 
                  perfettamente l'italiano - che la notte precedente abbiamo insultato 
                  i suoi uomini e che dovrà trattenerci per un periodo di tempo 
                  indeterminato, poi si vedrà. Subentra la lunga e paziente mediazione 
                  del prete copto e le nostre, in particolare le mie scuse - non 
                  sapevo che il bastone fosse la canna di un fucile - in fondo 
                  credo che non desiderino altro. L'atmosfera cambia, si beve 
                  qualcosa, si chiacchiera e poi ci ritroviamo nuovamente liberi, 
                  ripartiremo all'alba. L'uomo rivestito di piombo era il capo 
                  di un gruppo di guerriglieri eritrei.
                A 
                  conti fatti in queste situazioni praticamente era sempre la 
                  stessa storia, quegli uomini che ormai sono al loro trentesimo 
                  anno di guerra con gli etiopici volevano essere conosciuti e 
                  riconosciuti per quel che sono, combattenti con una precisa 
                  motivazione politica, l'indipendenza della lorro terra, e non 
                  volgari scifta o criminali. Tante persone più direttamente 
                  coinvolte che dovevano in qualche modo obbligatoriamente versare 
                  delle tasse anche a loro oltre che allo stato che le reclamava 
                  di diritto - sia in pecunia o animali da gregge o generi di 
                  prima necessità e medicinali - si sentivano ovviamente derubate 
                  ma in un certo senso erano protette dato che erano sempre tempestivamente 
                  informate qualora si era prossimi all'inizio di una battaglia 
                  nella zona o l'approssimarsi di truppe etiopiche che avrebbero 
                  potuto danneggiarle, in effetti la loro protezione era reale 
                  e motivata da un un preciso, sincero ideale di libertà.